Matteo 9,9-13
In quel tempo, mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Udito questo disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori”.
1. Omnia vincit amor et nos cedamus amori
(Egloga X Virgilio)
2. “Soffrendo si impara” (Eb 5,8). Le testimonianze più antiche di questa espressione risalgono al genere letterario della tragedia, e tra queste la prima è quella dell’Agamennone di Eschilo (ca. 524-456 a.C.): «Zeus mostrò ai mortali la via dell’essere saggi facendo sì che l’apprendimento avesse effetto attraverso la sofferenza» (Agamennone, 174-178). Non si tratta di saggezza o intelligenza da acquisire a tavolino, ma di apprendimento da raggiungere attraverso l’esperienza (Alcmane, Frammento, 82) con la quale confrontarsi nella vita. L’espressione soffrendo si impara esprime il concetto che è solo degli sciocchi apprendere per mezzo del soffrire: «le disgrazie sono lezioni per gli uomini» (Esopo, Favola, 311); al contrario, imparare senza soffrire è proprio dei sensati e degli intelligenti (Aneddoti, 1,11,12). Anche gli stessi intelligenti diventano però più assennati ed esperti nella vita (Plutarco, Apoftegmi, 172F,1).
Il tema della sofferenza educatrice ha origini ancora più antiche dell’espressione “soffrendo si impara”, perché le prime tracce del tema sono riscontrabili fin dal X-IX sec. a.C. nel poema epico dell’Iliade, sotto la forma letteraria del proverbio: «quando il fatto è accaduto, certo anche lo stolto ha imparato» (Iliade, 17,31-32); l’esperienza soprattutto se negativa rende accorto lo stolto per l’avvenire (Esiodo, Le opere e i giorni, 217-218).
Conviene imparare alla scuola del dolore, grazia divina che all’uomo concede di giungere alla saggezza (Eschilo, Agamennone, 179-181). Attraverso una pedagogia dolorosa fatta di sofferenze, sconfitte, sventure, pericoli e punizioni l’uomo migliora se stesso, diventa ragionevole e impara ad essere saggio. Soffre anche l’uomo onesto e perseguitato (Sofocle, Edipo a Colono, 7-8). Dunque, la comprensione globale dell’esistenza umana parte dall’esperienza, principio di apprendimento, e soprattutto dall’esperienza della sofferenza. Per la mente greca la sofferenza insegna all’uomo l’instabilità della sua condizione di mortale e lo conduce alla comprensione di sé e del mondo che lo circonda, costringendolo ad entrare in se stesso, ad interrogarsi sulle realtà profonde, a scoprire ciò che è vano e dannoso; non spiega il paradosso della sofferenza del giusto e lascia una imperscrutabile oscurità sul perché di quella sofferenza. La sofferenza, però, poiché bruttezza estetica e morale, ripugna ai Greci ed urta contro il loro umanesimo fondato sulla bellezza. L’uomo, però, esercitandosi attraverso la sopportazione di ciò che è doloroso raggiunge la fortezza e, come in una arena nella quale sviluppare la forza necessaria per superare le difficoltà, impara a conoscere se stesso, dà prova di maturità e, superando con fatica e sforzo quasi atletico le passioni, viene formato alla libertà (Epitteto, Dissertazioni, 1,24,1-2; 3,10,7-8).
La funzione del dolore è quella di essere uno strumento attraverso il quale l’uomo impara a scegliere il bene e non il male, proprio perché il male arreca dolore (Aristotele, Etica Nicomachea). Anche i latini riconoscono alla sofferenza un valore educativo. È presente l’idea di una maggiore accortezza e assennatezza acquistata alla scuola della sofferenza (Tito Livio, Ab Urbe Condita, 22,39), per la quale l’uomo raggiunge la virtù e comprende chi è e quali sono le sue capacità (Seneca, Provvidenza, 1,5; 2,6; 4,3.6). Solo dopo aver sofferto si impara a evitare il male che ha causato la sofferenza (Cesare, Guerra Civile, 3,10,4) e ad aiutare chi ancora si trova in essa (Virgilio, Eneide, 1,630).
3. L'11 novembre 2000 è stata posta una lapide in Piazza Castello, in memoria di Goffredo Varaglia. Nato nel 1507 e ordinato sacerdote nel 1528, fu un valente predicatore dell'ordine dei cappuccini ed un buon teologo. Le sue caratteristiche fecero sì che la Chiesa lo scegliesse per predicare nelle valli valdesi, vicino quindi alla sua zona d'origine. Tuttavia lo studio delle dottrine valdesi, unito ad un'ammirazione per la figura del Vicario Generale del suo ordine, Bernardino Ochino, fuggito nel 1542 in Svizzera per diventare protestante, provocò in lui una crisi religiosa che verso i suoi quarant'anni gli fece prendere la decisione di deporre il saio. Posto sotto inchiesta nel 1552 con altri 12 suoi confratelli, fu chiamato a Roma, dove l'inchiesta non riuscì a stabilire la sua colpevolezza. Fu quindi posto agli arresti domiciliari per cinque anni fino al 1557, quando prese la decisione di recarsi a Ginevra, dove fu nominato predicatore calvinista. Fu poi inviato nella Valle d'Angrogna, ad istruire nuovi fedeli e, dopo cinque mesi di predicazioni, fu invitato nel suo natio paese di Brusca per disputare con il francescano Angelo Malerba. Durante il viaggio di ritorno, fu arrestato a Barge, dove subì un primo interrogatorio, e condotto a Torino per essere rinchiuso nelle carceri del Parlamento. Qui dovette sottostare, anche da parte di alti ecclesiastici, a lunghi ed estenuanti interrogatori: in uno di questi, quando gli fu chiesto quanti erano i predicatori venuti da Ginevra, disse che erano 24, ma che altri erano pronti a seguirli e che il numero sarebbe stato così elevato da non trovare abbastanza legna da bruciarli tutti! Poco dopo, egli fu sconsacrato nella cattedrale di Torino e il 29 marzo 1558 salì sul patibolo in Piazza Castello: fu dapprima strangolato ed il corpo fu bruciato. Prima dell'esecuzione, si rivolse al boia dicendo: Amico mio, io ti ho di già perdonato, et hora di nuovo ti perdono con tutto il cuore.
4. Le tre certezze di Fernando Pessoa: Di tutto sono rimaste tre cose: la certezza che stavo sempre cominciando, la certezza che dovevo continuare e la certezza che sarei stato interrotto prima di terminare.
Fare dell’interruzione un cammino nuovo, Della paura una scala, del sogno un ponte, della ricerca un incontro.
5. Si legge in Huizinga questa osservazione: «Ciò che mi colpisce in questa crudeltà giudiziaria non è tanto la perversità quanto il piacere animalesco e brutale, la gioia festaiola che vi trovava il popolo. I cittadini di Mons acquistarono un brigante ad un prezzo elevatissimo per vederlo squartare, «del che il popolo fu lieto come se un nuovo santo fosse resuscitato». Si giunge al punto di rifiutare la confessione ai condannati a morte per essere ben sicuri che non sfuggiranno alle orribili pene dell’inferno. La morte e l’inferno esercitano un tale «fascino dell’orrore» che i predicatori ne fanno il tema abituale delle loro prediche. Sono straordinariamente in voga le processioni di penitenti e più ancora di quei «flagellanti» che precedono e circondano i grandi predicatori itineranti, come Vincenzo Ferreri (1350-1419). Nel corso di queste celebrazioni la «pietà popolare» si abbandona alle emozioni più violente. Tutti piangono a calde lacrime. Vincenzo Ferreri, «ogni volta che consacrava l’ostia, versava tante lacrime che gli astanti si mettevano a piangere e s’innalzava un pianto simile ad una lamentazione funebre. Il pianto gli era così dolce che malvolentieri lo asciugava». Si chiedeva a Dio «il battesimo quotidiano delle lacrime» mentre si meditava su ogni particolare la Passione di Cristo, sulla morte e sul pericolo dell’inferno. Le strofe drammatiche del Dies irae, le sedici ultime almeno, sono di quest’epoca, come la moltiplicazione delle messe per i defunti, i «lasciti» per le messe, celebrate con tutto un apparato di lamentazioni.
6. «Una smaniosa inquietudine tormenta l’animo umano: noi viaggiamo per terra e per mare in cerca della felicità. Ma questa felicità è proprio qui, vicino a noi» (Orazio, XI Epistola)
7. Franz Jagherstetter
a. “Finché si può avere la coscienza tranquilla di non essere un criminale, si può vivere in pace anche in prigione. Nel pensiero e nel sentimento umano preferiremmo talvolta vendicarci un po’, ma la fede cristiana non ce lo permette, dobbiamo ripagare il male con il bene. E soltanto l’amore è in grado di restaurare ogni volta di nuovo la pace. Potremmo ancora chiamarci cristiani, se noi poveri uomini per orgoglio non riuscissimo a perdonare il nostro prossimo?”.
b. “Quello che vogliamo vedere sono cristiani che riescono a resistere, in mezzo a queste tenebre, con superiore chiarezza, compostezza e sicurezza, che si oppongono con la più pura pace e serenità all’assenza di pace e di gioia, all’egoismo e all’odio; che non sono delle canne che si piegano di qua e di là al minimo vento, che non si limitano a guardare cosa fanno gli altri o gli amici, ma che si chiedono davvero cosa insegna la nostra fede. La coscienza può sopportare tutto ciò senza avere qualcosa di cui pentirsi? Se anche la situazione dovesse peggiorare, per chi vive nell’amore le cose si volgono sempre al meglio”.
c. “In questi tempi si sente spesso dire che si può fare tranquillamente tutto, perché la responsabilità è di altri: essa viene scaricata da uno all’altro e nessuno vuole essere responsabile di nulla. Così, secondo il pensiero corrente, solo uno o al massimo due devono pagare per tutti i crimini e gli orrori che in questi tempi vengono commessi. Può anche essere che alcune autorità, sia civili che spirituali, debbano portare una grossa responsabilità. Ma anziché rendere loro più lieve questa responsabilità si vuole dare loro anche il nostro fardello di colpe”.
In quel tempo, mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Udito questo disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori”.
1. Omnia vincit amor et nos cedamus amori
(Egloga X Virgilio)
2. “Soffrendo si impara” (Eb 5,8). Le testimonianze più antiche di questa espressione risalgono al genere letterario della tragedia, e tra queste la prima è quella dell’Agamennone di Eschilo (ca. 524-456 a.C.): «Zeus mostrò ai mortali la via dell’essere saggi facendo sì che l’apprendimento avesse effetto attraverso la sofferenza» (Agamennone, 174-178). Non si tratta di saggezza o intelligenza da acquisire a tavolino, ma di apprendimento da raggiungere attraverso l’esperienza (Alcmane, Frammento, 82) con la quale confrontarsi nella vita. L’espressione soffrendo si impara esprime il concetto che è solo degli sciocchi apprendere per mezzo del soffrire: «le disgrazie sono lezioni per gli uomini» (Esopo, Favola, 311); al contrario, imparare senza soffrire è proprio dei sensati e degli intelligenti (Aneddoti, 1,11,12). Anche gli stessi intelligenti diventano però più assennati ed esperti nella vita (Plutarco, Apoftegmi, 172F,1).
Il tema della sofferenza educatrice ha origini ancora più antiche dell’espressione “soffrendo si impara”, perché le prime tracce del tema sono riscontrabili fin dal X-IX sec. a.C. nel poema epico dell’Iliade, sotto la forma letteraria del proverbio: «quando il fatto è accaduto, certo anche lo stolto ha imparato» (Iliade, 17,31-32); l’esperienza soprattutto se negativa rende accorto lo stolto per l’avvenire (Esiodo, Le opere e i giorni, 217-218).
Conviene imparare alla scuola del dolore, grazia divina che all’uomo concede di giungere alla saggezza (Eschilo, Agamennone, 179-181). Attraverso una pedagogia dolorosa fatta di sofferenze, sconfitte, sventure, pericoli e punizioni l’uomo migliora se stesso, diventa ragionevole e impara ad essere saggio. Soffre anche l’uomo onesto e perseguitato (Sofocle, Edipo a Colono, 7-8). Dunque, la comprensione globale dell’esistenza umana parte dall’esperienza, principio di apprendimento, e soprattutto dall’esperienza della sofferenza. Per la mente greca la sofferenza insegna all’uomo l’instabilità della sua condizione di mortale e lo conduce alla comprensione di sé e del mondo che lo circonda, costringendolo ad entrare in se stesso, ad interrogarsi sulle realtà profonde, a scoprire ciò che è vano e dannoso; non spiega il paradosso della sofferenza del giusto e lascia una imperscrutabile oscurità sul perché di quella sofferenza. La sofferenza, però, poiché bruttezza estetica e morale, ripugna ai Greci ed urta contro il loro umanesimo fondato sulla bellezza. L’uomo, però, esercitandosi attraverso la sopportazione di ciò che è doloroso raggiunge la fortezza e, come in una arena nella quale sviluppare la forza necessaria per superare le difficoltà, impara a conoscere se stesso, dà prova di maturità e, superando con fatica e sforzo quasi atletico le passioni, viene formato alla libertà (Epitteto, Dissertazioni, 1,24,1-2; 3,10,7-8).
La funzione del dolore è quella di essere uno strumento attraverso il quale l’uomo impara a scegliere il bene e non il male, proprio perché il male arreca dolore (Aristotele, Etica Nicomachea). Anche i latini riconoscono alla sofferenza un valore educativo. È presente l’idea di una maggiore accortezza e assennatezza acquistata alla scuola della sofferenza (Tito Livio, Ab Urbe Condita, 22,39), per la quale l’uomo raggiunge la virtù e comprende chi è e quali sono le sue capacità (Seneca, Provvidenza, 1,5; 2,6; 4,3.6). Solo dopo aver sofferto si impara a evitare il male che ha causato la sofferenza (Cesare, Guerra Civile, 3,10,4) e ad aiutare chi ancora si trova in essa (Virgilio, Eneide, 1,630).
3. L'11 novembre 2000 è stata posta una lapide in Piazza Castello, in memoria di Goffredo Varaglia. Nato nel 1507 e ordinato sacerdote nel 1528, fu un valente predicatore dell'ordine dei cappuccini ed un buon teologo. Le sue caratteristiche fecero sì che la Chiesa lo scegliesse per predicare nelle valli valdesi, vicino quindi alla sua zona d'origine. Tuttavia lo studio delle dottrine valdesi, unito ad un'ammirazione per la figura del Vicario Generale del suo ordine, Bernardino Ochino, fuggito nel 1542 in Svizzera per diventare protestante, provocò in lui una crisi religiosa che verso i suoi quarant'anni gli fece prendere la decisione di deporre il saio. Posto sotto inchiesta nel 1552 con altri 12 suoi confratelli, fu chiamato a Roma, dove l'inchiesta non riuscì a stabilire la sua colpevolezza. Fu quindi posto agli arresti domiciliari per cinque anni fino al 1557, quando prese la decisione di recarsi a Ginevra, dove fu nominato predicatore calvinista. Fu poi inviato nella Valle d'Angrogna, ad istruire nuovi fedeli e, dopo cinque mesi di predicazioni, fu invitato nel suo natio paese di Brusca per disputare con il francescano Angelo Malerba. Durante il viaggio di ritorno, fu arrestato a Barge, dove subì un primo interrogatorio, e condotto a Torino per essere rinchiuso nelle carceri del Parlamento. Qui dovette sottostare, anche da parte di alti ecclesiastici, a lunghi ed estenuanti interrogatori: in uno di questi, quando gli fu chiesto quanti erano i predicatori venuti da Ginevra, disse che erano 24, ma che altri erano pronti a seguirli e che il numero sarebbe stato così elevato da non trovare abbastanza legna da bruciarli tutti! Poco dopo, egli fu sconsacrato nella cattedrale di Torino e il 29 marzo 1558 salì sul patibolo in Piazza Castello: fu dapprima strangolato ed il corpo fu bruciato. Prima dell'esecuzione, si rivolse al boia dicendo: Amico mio, io ti ho di già perdonato, et hora di nuovo ti perdono con tutto il cuore.
4. Le tre certezze di Fernando Pessoa: Di tutto sono rimaste tre cose: la certezza che stavo sempre cominciando, la certezza che dovevo continuare e la certezza che sarei stato interrotto prima di terminare.
Fare dell’interruzione un cammino nuovo, Della paura una scala, del sogno un ponte, della ricerca un incontro.
5. Si legge in Huizinga questa osservazione: «Ciò che mi colpisce in questa crudeltà giudiziaria non è tanto la perversità quanto il piacere animalesco e brutale, la gioia festaiola che vi trovava il popolo. I cittadini di Mons acquistarono un brigante ad un prezzo elevatissimo per vederlo squartare, «del che il popolo fu lieto come se un nuovo santo fosse resuscitato». Si giunge al punto di rifiutare la confessione ai condannati a morte per essere ben sicuri che non sfuggiranno alle orribili pene dell’inferno. La morte e l’inferno esercitano un tale «fascino dell’orrore» che i predicatori ne fanno il tema abituale delle loro prediche. Sono straordinariamente in voga le processioni di penitenti e più ancora di quei «flagellanti» che precedono e circondano i grandi predicatori itineranti, come Vincenzo Ferreri (1350-1419). Nel corso di queste celebrazioni la «pietà popolare» si abbandona alle emozioni più violente. Tutti piangono a calde lacrime. Vincenzo Ferreri, «ogni volta che consacrava l’ostia, versava tante lacrime che gli astanti si mettevano a piangere e s’innalzava un pianto simile ad una lamentazione funebre. Il pianto gli era così dolce che malvolentieri lo asciugava». Si chiedeva a Dio «il battesimo quotidiano delle lacrime» mentre si meditava su ogni particolare la Passione di Cristo, sulla morte e sul pericolo dell’inferno. Le strofe drammatiche del Dies irae, le sedici ultime almeno, sono di quest’epoca, come la moltiplicazione delle messe per i defunti, i «lasciti» per le messe, celebrate con tutto un apparato di lamentazioni.
6. «Una smaniosa inquietudine tormenta l’animo umano: noi viaggiamo per terra e per mare in cerca della felicità. Ma questa felicità è proprio qui, vicino a noi» (Orazio, XI Epistola)
7. Franz Jagherstetter
a. “Finché si può avere la coscienza tranquilla di non essere un criminale, si può vivere in pace anche in prigione. Nel pensiero e nel sentimento umano preferiremmo talvolta vendicarci un po’, ma la fede cristiana non ce lo permette, dobbiamo ripagare il male con il bene. E soltanto l’amore è in grado di restaurare ogni volta di nuovo la pace. Potremmo ancora chiamarci cristiani, se noi poveri uomini per orgoglio non riuscissimo a perdonare il nostro prossimo?”.
b. “Quello che vogliamo vedere sono cristiani che riescono a resistere, in mezzo a queste tenebre, con superiore chiarezza, compostezza e sicurezza, che si oppongono con la più pura pace e serenità all’assenza di pace e di gioia, all’egoismo e all’odio; che non sono delle canne che si piegano di qua e di là al minimo vento, che non si limitano a guardare cosa fanno gli altri o gli amici, ma che si chiedono davvero cosa insegna la nostra fede. La coscienza può sopportare tutto ciò senza avere qualcosa di cui pentirsi? Se anche la situazione dovesse peggiorare, per chi vive nell’amore le cose si volgono sempre al meglio”.
c. “In questi tempi si sente spesso dire che si può fare tranquillamente tutto, perché la responsabilità è di altri: essa viene scaricata da uno all’altro e nessuno vuole essere responsabile di nulla. Così, secondo il pensiero corrente, solo uno o al massimo due devono pagare per tutti i crimini e gli orrori che in questi tempi vengono commessi. Può anche essere che alcune autorità, sia civili che spirituali, debbano portare una grossa responsabilità. Ma anziché rendere loro più lieve questa responsabilità si vuole dare loro anche il nostro fardello di colpe”.