22 giugno 2008

Matteo 10,26-33
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non abbiate paura degli uomini, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze. E non abbiate paura dì quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. E(ppure) uno di essi non cadrà a terra senza il Padre vostro.
Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri! Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».

1. Luca (sinottico) «Ora, dico a voi, miei amici, non temete da parte di quelli che uccidono il corpo, e dopo questo non hanno più nulla da fare. Ma vi mostrerò chi temerete: temete colui, che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella geenna. Sì, vi dico, questo temete! Cinque passeri non si vendono per due soldi? E(ppure) uno di essi non è dimenticato dinanzi a Dio.
Ma anche i capelli del vostro capo sono tutti contati.
Non temete; voi valete più di molti passeri. Ora, vi dico, ognuno il quale mi riconoscerà dinanzi agli uomini, anche il Figlio dell’uomo lo riconoscerà dinanzi agli angeli di Dio. Ma colui che mi ha rinnegato davanti agli uomini, sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio».

2. Gli abiti hanno fatto di noi gli uomini, c’è ora il serio pericolo che essi facciano di noi gli attaccapanni.
(Thomas Carlyle)

3. Il potere della menzogna. Ogni amore autentico deve senza dubbio passare attraverso la prova. Questo vale tanto per le nostre relazioni personali con la Chiesa di Cristo quanto per le nostre relazioni umane. E’ chiaro che allora scopriamo ciò che talvolta avevamo, volutamente o meno, ignorato: che la Chiesa è simile ad una persona, vive, si afferma, agisce, lotta, soffre e che può succedere che soffriamo con lei e per lei, e a volte anche a causa sua. L’essenziale non è rivelare i nomi di coloro che ci hanno fatti del male o scandalizzato. L’essenziale è che le prove che ci vengono dalla Chiesa ci obbligano a verificare ciò che la teologia afferma in modo apparentemente neutro: la Chiesa è inseparabile da Gesù Cristo, la sua vita e la sua storia non possono non portare i segni dell’incarnazione e soprattutto della Passione e della Pasqua. L’agonia e la Passione di Cristo non possono non segnare la vita e la storia della Chiesa, se la Chiesa è realmente, e non in astratto, il corpo di Cristo. Allora si tratta non solo di denunciare i prelati corrotti, gli uomini di Chiesa che mettono la loro carriera al di sopra delle proprie responsabilità pastorali, le confusioni mostruose tra potere religioso e potere politico. Si tratta di comprendere che il potere della menzogna, della calunnia e del disprezzo si aggrappa a ciò che vi è di più santo anche in questo insieme vivente che è il Corpo di Cristo.
Più solidi di ciò che ci distrugge. Quali che siano le umiliazioni, le emarginazioni e le violenze stesse che possiamo subire da parte di certi membri della Chiesa o di alcuni rappresentanti della sua autorità, sappiamo bene, in fondo al cuore, che la peggiore disperazione di cui potremmo soffrire sarebbe vivere tutte queste prove impedendo a noi stessi di essere legati a Lui, nel momento in cui siamo stritolati, obbligati a vivere momenti di angoscia e agonia. Noi gridiamo all’ingiustizia! Coviamo la nostra rivolta! Più tardi, ci sarà dato di sapere che in queste ore di disperazione profonda e distruttiva lo Spirito Santo era là, e che era per noi non solo l’Avvocato, colui che ci difende contro le nostre tentazioni violente, ma il Consolatore, colui che ci ha reso infine più solidi di tutto ciò che ci distruggeva.
(Mons. Dagens, vescovo di Angouleme)

4. Non conoscevo frei Betto fino a giovedì sera e questo mi è parso un gran bel motivo per andare a sentirlo.
Ho scoperto che nei Vangeli sono sempre i ricchi a domandare a Gesù come guadagnare il Regno dei Cieli, mentre i poveri gli fanno invece richieste molto più pratiche: evidentemente gli uni hanno raggiunto il Paradiso già quaggiù e ci tengono a non perderlo per strada quando si avvieranno dall’altra parte. Ho anche scoperto che alle domande spirituali Gesù dà risposte sotto forma di parabole molto pratiche e circostanziate. Ho anche scoperto che queste cose le sapevo già, ma non le avevo mai notate perché il catechismo che frequentavo in parrocchia non era ispirato alla Teologia della Liberazione, al contrario di Betto. Ho scoperto che esistono in America Latina molte comunità di base dove si applica questa teologia e dove la gente racconta cose come: “Mio marito se n’è andato a vivere in città e io ringrazio Dio di aver trovato un nuovo compagno; anche se non siamo sposati, lui è un padre per i miei figli”, oppure: “Sono una prostituta, vendo il mio corpo per guadagnarmi da vivere, ma durante la Settimana Santa per fare un sacrificio vado alla prigione e mi offro gratis a quei poveri detenuti che da tanto tempo non hanno l’affetto di una donna”, frase alla quale ci viene raccontato che don Helder Camara replicò: “Vai in pace con Dio, figliola”. Ho scoperto che anche frei Betto pensa che tanta più fede uno ha, tanto meno avrà bisogno della religione. Ho scoperto che Betto è un religioso che si chiede quello che tante volte mi sono chiesta io e cioè come possano i suoi confratelli e le sue consorelle di ogni ordine essere contro la rivoluzione, invece che rendersi conto che la vita che loro stessi si sono scelti è una forma di rivoluzione: “Gesù era un rivoluzionario, non è mica morto in un incidente di cammelli a Gerusalemme”. Ho scoperto che frei Betto è stato in galera durante la dittatura militare e che tutto sommato stava meglio lì che quando collaborava con Lula perché almeno poteva criticare il Governo quanto voleva, tanto era già dentro, mentre lavorando con il Presidente doveva mordersi la lingua. Poi si è stufato di star zitto e dal Governo è uscito perché non gli piaceva l’idea di far svaporare milioni di chilometri quadrati di foresta pluviale per coltivarci soia e mais per biocarburanti: “La gente fa la fame perché le automobili hanno sete”. Ho scoperto che la gente fa la fame in Brasile, benché il suo territorio sia straricco di risorse naturali, terre fertili, acqua e al riparo da disastri naturali, perché nessuno ancora ha messo mano a una seria riforma agraria e la terra è posseduta da un’infima percentuale di ricchi a svantaggio dèl resto della popolazione. Ho scoperto che nel suo libro che abbiamo comprato all’uscita, Gli Dèi non hanno salvato l’America si fa il classico esempio del turista che arriva in albergo e vi trova gli orari dei musei, dei ristoranti, delle discoteche e perfino delle Messe, insomma di qualsiasi cosa lo faccia sentire “a casa” e non in un Paese diverso dal suo di cui varrebbe la pena conoscere tante cose - per esempio chi governa ufficialmente, chi in realtà comanda, chi sfrutta chi, chi soffre per via di chi.
(Giuliana Cupi)

5. “Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”
(Dom Hélder Camara)

6. “Se voi però avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
(don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici)

15 giugno 2008

Matteo 9,36-10,8
In quel tempo, Gesù vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!». Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattie e ogni infermità. I nomi dei dodici apostoli sono: Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello; Filippo e Bartolomeo;Tommaso e Matteo il pubblicano;Giacomo,figlio di Alfeo, e Taddeo; Simone il Cananeo e Giuda l’Iscariota, colui che poi lo tradì. Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».

1. Se vogliamo che un messaggio d’amore sia udito, spetta a noi lanciarlo. Se vogliamo che una lampada continui ad ardere, spetta a noi alimentarla d’olio.
(Madre Teresa)

2. Come nell’Esodo, Yahwé mosso a compassione si attiva per liberare il suo popolo ridotto in schiavitù e privo ancora di persone che annuncino che un’altra vita per loro è possibile, così nel Vangelo secondo Matteo, Gesù si muove a compassione delle folle perché erano stanche e scoraggiate, come pecore che non hanno un pastore. Tutto parte dalla compassione: nella Bibbia ebraica il termine che traduce compassione è rehamim, che significa amore viscerale (rehem significa utero); è, cioè, la forma dell’amore materno, quello con cui una madre custodisce, protegge, alimenta la bimba, il bimbo al suo seno. Troviamo in Matteo lo stesso verbo che Luca usa quando parla dell’uomo della Samaria che passò accanto alla persona lasciata mezza morta dai briganti, la vide e ne ebbe compassione. Forse sono passati i tempi in cui Erasmo da Rotterdam nell’adagio “Far pagare gabella al morto” scriveva che “i sacerdoti dovrebbero tenere il denaro a vile, dovrebbero distribuire gratuitamente i loro doni come gratuitamente li hanno ricevuti ed invece ti fanno pagare anche loro ogni cosa senza la minima esenzione”. Forse è inattuale anche Kierkegaard che, con la sua sferzante ironia, nell’atto di accusa al cristianesimo nel regno di Danimarca scriveva: “La Parola di Dio dice prima di tutto il regno di Dio ed invece la sua interpretazione diventa anzitutto il resto e poi il Regno di Dio; dopo molto correre e affannarsi si conquistano i beni terreni, e poi, alla fine ecco che viene una predica: come si debba curare innanzitutto il regno di Dio”. Nelle strutture delle chiese istituzionali ancora molto pervasivi sono gli interessi commerciali, bancari, immobiliari, forti e pesanti sono le pretese di controllo sui corpi e sulle anime delle persone. E questo non facilita “vedere” le Chiese come comunità di sorelle e di fratelli alla sequela di Gesù, che, come scrive Elizabeth Green nell’appassionante libro “Il Dio sconfinato”, nella vita come nella morte si trova in compagnia dei diseredati e dei derelitti, di una umanità estromessa dal palcoscenico, espulsa dal campo. Quell’aggrapparsi gelosamente a certezze ritenute scaturite da ordine divino ed ai tanti privilegi ritenuti diritti indispensabili per l’annuncio del regno di Dio, quell’aggrapparsi continuo al palcoscenico mediatico mettendo fuori campo chi compie altri percorsi, chi ha altre vedute, quell’aggrapparsi agli “aiuti” dello Stato che mentre offre sicurezza materiale depriva il messaggio evangelico della sua forza critica nei confronti dei poteri mondani, quell’aggrapparsi non solo è segno che non abbiamo “lo stesso sentimento che era in Cristo Gesù” ma è soprattutto come un velo oscuro che impedisce a tantissime persone di riconoscere l’amore misericordioso e gratuito di Dio e sperimentare la sua compagnia.

3. Un infermiera racconta: “Un uomo di 90 anni, piccolo molto fiero, vestito e ben rasato, una mattina alle 8 con i suoi capelli perfettamente pettinati, trasloca in una casa per persone anziane. Sua moglie è da poco deceduta, cosa che lo obbliga a lasciare la sua casa. Dopo qualche ora d‘attesa nella hall della casa, sorride gentilmente quando gli diciamo che la sua camera è pronta. Mentre si reca all‘ascensore, gli faccio una descrizione della sua piccola camera, includendo anche il bel drappo sospeso sulla sua finestra come tenda. “Mi piace molto” dice con l‘entusiasmo di un bambino al quale hanno appena regalato un cucciolo. “Ma signor Lucio, non ha ancora visto la camera-aspetti un attimo”. “Questo non c‘entra niente” mi dice “vede, la felicità è qualcosa che scelgo a priori. Che mi piaccia la mia camera o no, non dipende dai mobili o dalle decorazioni, ma piuttosto dal modo in cui la percepisco io. Nella mia testa ho già deciso che questa camera mi piace. E’ una decisione che prendo ogni mattina al mio risveglio. Posso scegliere: posso passare la giornata a letto contando le difficoltà che ho con le parti del corpo che non funzionano, oppure alzarmi e ringraziare Dio per quelle che funzionano ancora. Ogni giorno è un regalo e, finchè potrò aprire i miei occhi, focalizzerò sul nuovo giorno e su tutti, i ricordi felici che ho raccolto durante tutta la vita. La vecchiaia è come un conto in banca. Prelevi da ciò che hai accumulato. Perciò il mio consiglio per voi, sarebbe di depositare molte “felicità” sul vostro conto alla banca dei ricordi. Io continuo a depositare.... oggi grazie a lei, infermiera!”

4. Una volta, quando tenevo il mio Corso d’Amore, abbiamo ricevuto la visita di un cane. E’ entrato in aula per nulla spaurito, dimenando la coda festoso. E ha preso ad aggirarsi fra gli studenti seduti ai loro banchi, fatto oggetto di tutta l’attenzione che poteva desiderare. Naturalmente gli allievi lo hanno coperto di pacche affettuose e di carezze, il che ha indotto una delle ragazze a commentare, asciutta: «Ecco una cosa tipica della mia vita. Qui non c’è stata sera in cui non mi sia trovata a tu per tu con la mia solitudine, senza una persona che mi abbia accordato un filo di comprensione. Invece entra un cane randagio ed è ricoperto d’affetto! C’è qualcosa d’ingiusto in tutto questo». «Be’, non è forse poi così pazzesco» le ha risposto un ragazzo. «Il cane è entrato e con il suo contegno ci ha fatto capire ch’era disposto a dare e a ricevere affetto. Il suo messaggio è stato chiaro, semplice, per niente minaccioso. Tu invece te ne stai seduta, imperturbabile, senza rivelare nulla. Noi non leggiamo nel pensiero. A volta bisogna decidersi a parlare, o, quantomeno a lanciare un segnale».
(Leo Buscaglia, Nati per amare, 34-35)

5. Stando a recenti stime (www.siticibo.it), un italiano in media butta via ogni anno 27 Kg di cibo ancora commestibile. Il 10% della pasta e del pane e il 15% della carne che arriva sulle nostre tavole finisce in pattumiera, il che equivarrebbe più o meno a 584 euro pro-capite. In totale si parla di 6 milioni di tonnellate di cibo gettate ogni anno in Italia, con le quali si potrebbero sfamare 3 milioni di persone. E non siamo i peggiori: in USA e nel Regno Unito la percentuale supera rispettivamente il 30% e il 40%. E tutto questo solo ragionando sul cibo effettivamente acquistato, a cui vanno aggiunte le enormi quantità di alimentari che scadono sugli scaffali dei negozi e gli avanzi delle mense aziendali,etc.

6. I popoli denutriti non sono mai stati un rimorso per i popoli supernutriti, perché il mercato, che fa tutte le regole, fa anche le regole della coscienza: tutto è rimesso alla competizione, se non hai il necessario devi procurartelo, se non te lo procuri è colpa tua. La fame di un popolo si spiegava con la sua civiltà: i Primi Mondi si son creati una civiltà della produzione e del consumo, il Terzo e Quarto Mondo non hanno sviluppato né la tecnica né l’agricoltura, hanno un tasso spropositato di analfabeti, regimi antidemocratici, se andiamo a portargli un regime democratico uccidono i nostri soldati, sono sempre in guerra gli uni contro gli altri, tutto questo non abbassa la miseria ma la aumenta, e dal punto di vista occidentale la aumenta giustamente.
Non è soltanto un confronto fra popoli, ma anche fra individui: quando andiamo nei paesi della fame, in Africa, in Asia, in Sud America e ci confrontiamo con gli indigeni che incontriamo abbiamo l’impressione di una differenza di merito: noi abbiamo tutto perché facciamo tutto, loro non hanno niente perché non fanno niente. Si parla di «mal d’Africa» per indicare l’attaccamento all’Africa che prende l’europeo che vi soggiorna per alcuni anni. Ci si domanda se il mal d’Africa esiste. Certo che esiste: è la tua sensazione di essere più che uomo, un dio, in mezzo a uomini che sono meno che uomini, tu vivi una super-vita mentre intorno a te vivono una mezza vita, e a volte neanche quella. C’è chi, anche tra i grandi scrittori, girando per l’India dice di «sentire gli dei». Mi chiedo quali dei può sentire un europeo che cammina tra i morenti. Ho l’impressione che più che «sentire gli dei» gli europei in India «si sentono dei», in paradiso. Se in giro per il mondo ci accompagnano i nostri figli, abbiamo l’impressione che giustamente domani loro domineranno mentre i figli degli indigeni li serviranno. Perché i nostri sanno e gli altri sono analfabeti. Non sanno usare una matita. A volte sanno cos’è un’arma, perché sono sempre in guerra, e questo li rende più colpevoli. Non ci rendiamo conto di una cosa: la guerra produce nuova fame, e la nuova fame produce nuove guerre. La fame rende stupidi. Ho un figlio adottato a distanza in Amazzonia, per farmi piacere mi manda un disegno ogni anno: un anno mi faceva l’America come due triangoli, adesso me la rifà come due strisce verticali, abuliche. Ho scritto alla suora che lo educa: «Ma non migliora». Mi ha risposto: «I bambini dell’Amazzonia non migliorano crescendo, ma peggiorano». Le malattie che hanno avuto sono bombe a scoppio ritardato: guariscono, ma non ragionano più, o sempre meno. In Brasile mi son trovato di fronte a una squadra famelica di ninos de rua che mi fissavano e ho avuto paura: la preistoria fissava la storia. Sono dei perdenti che, diventando uomini, generano perdenti. Perché avere fame significa essere figlio di genitori che avevano fame. La fame si eredita. Adesso la crisi alimentare aggrava la fame sul mondo, c’è gente che ha più fame oggi di ieri: ma è gente che non ha mai mangiato. Per una stortura del loro progresso, ammesso che si possa chiamare così, il campo in cui questa gente progredisce di meno è l’agricoltura: arano come migliaia di anni fa. Le malattie che in città fanno ammalare in campagna fanno morire. Se la situazione è a questo punto, è perché abbiamo creduto, fino alla fine del ‘900, che se ci sono popoli affamati noi siamo sicuri e loro no. Errore: se ci sono popoli affamati tutto il mondo è insicuro e noi più degli altri.
(Ferdinando Camon, Figli di un Dio affamato)

8 giugno 2008

Matteo 9,9-13
In quel tempo, mentre andava via, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Udito questo disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori”.

1. Omnia vincit amor et nos cedamus amori
(Egloga X Virgilio)

2. “Soffrendo si impara” (Eb 5,8). Le testimonianze più antiche di questa espressione risalgono al genere letterario della tragedia, e tra queste la prima è quella dell’Agamennone di Eschilo (ca. 524-456 a.C.): «Zeus mostrò ai mortali la via dell’essere saggi facendo sì che l’apprendimento avesse effetto attraverso la sofferenza» (Agamennone, 174-178). Non si tratta di saggezza o intelligenza da acquisire a tavolino, ma di apprendimento da raggiungere attraverso l’esperienza (Alcmane, Frammento, 82) con la quale confrontarsi nella vita. L’espressione soffrendo si impara esprime il concetto che è solo degli sciocchi apprendere per mezzo del soffrire: «le disgrazie sono lezioni per gli uomini» (Esopo, Favola, 311); al contrario, imparare senza soffrire è proprio dei sensati e degli intelligenti (Aneddoti, 1,11,12). Anche gli stessi intelligenti diventano però più assennati ed esperti nella vita (Plutarco, Apoftegmi, 172F,1).
Il tema della sofferenza educatrice ha origini ancora più antiche dell’espressione “soffrendo si impara”, perché le prime tracce del tema sono riscontrabili fin dal X-IX sec. a.C. nel poema epico dell’Iliade, sotto la forma letteraria del proverbio: «quando il fatto è accaduto, certo anche lo stolto ha imparato» (Iliade, 17,31-32); l’esperienza soprattutto se negativa rende accorto lo stolto per l’avvenire (Esiodo, Le opere e i giorni, 217-218).
Conviene imparare alla scuola del dolore, grazia divina che all’uomo concede di giungere alla saggezza (Eschilo, Agamennone, 179-181). Attraverso una pedagogia dolorosa fatta di sofferenze, sconfitte, sventure, pericoli e punizioni l’uomo migliora se stesso, diventa ragionevole e impara ad essere saggio. Soffre anche l’uomo onesto e perseguitato (Sofocle, Edipo a Colono, 7-8). Dunque, la comprensione globale dell’esistenza umana parte dall’esperienza, principio di apprendimento, e soprattutto dall’esperienza della sofferenza. Per la mente greca la sofferenza insegna all’uomo l’instabilità della sua condizione di mortale e lo conduce alla comprensione di sé e del mondo che lo circonda, costringendolo ad entrare in se stesso, ad interrogarsi sulle realtà profonde, a scoprire ciò che è vano e dannoso; non spiega il paradosso della sofferenza del giusto e lascia una imperscrutabile oscurità sul perché di quella sofferenza. La sofferenza, però, poiché bruttezza estetica e morale, ripugna ai Greci ed urta contro il loro umanesimo fondato sulla bellezza. L’uomo, però, esercitandosi attraverso la sopportazione di ciò che è doloroso raggiunge la fortezza e, come in una arena nella quale sviluppare la forza necessaria per superare le difficoltà, impara a conoscere se stesso, dà prova di maturità e, superando con fatica e sforzo quasi atletico le passioni, viene formato alla libertà (Epitteto, Dissertazioni, 1,24,1-2; 3,10,7-8).
La funzione del dolore è quella di essere uno strumento attraverso il quale l’uomo impara a scegliere il bene e non il male, proprio perché il male arreca dolore (Aristotele, Etica Nicomachea). Anche i latini riconoscono alla sofferenza un valore educativo. È presente l’idea di una maggiore accortezza e assennatezza acquistata alla scuola della sofferenza (Tito Livio, Ab Urbe Condita, 22,39), per la quale l’uomo raggiunge la virtù e comprende chi è e quali sono le sue capacità (Seneca, Provvidenza, 1,5; 2,6; 4,3.6). Solo dopo aver sofferto si impara a evitare il male che ha causato la sofferenza (Cesare, Guerra Civile, 3,10,4) e ad aiutare chi ancora si trova in essa (Virgilio, Eneide, 1,630).

3. L'11 novembre 2000 è stata posta una lapide in Piazza Castello, in memoria di Goffredo Varaglia. Nato nel 1507 e ordinato sacerdote nel 1528, fu un valente predicatore dell'ordine dei cappuccini ed un buon teologo. Le sue caratteristiche fecero sì che la Chiesa lo scegliesse per predicare nelle valli valdesi, vicino quindi alla sua zona d'origine. Tuttavia lo studio delle dottrine valdesi, unito ad un'ammirazione per la figura del Vicario Generale del suo ordine, Bernardino Ochino, fuggito nel 1542 in Svizzera per diventare protestante, provocò in lui una crisi religiosa che verso i suoi quarant'anni gli fece prendere la decisione di deporre il saio. Posto sotto inchiesta nel 1552 con altri 12 suoi confratelli, fu chiamato a Roma, dove l'inchiesta non riuscì a stabilire la sua colpevolezza. Fu quindi posto agli arresti domiciliari per cinque anni fino al 1557, quando prese la decisione di recarsi a Ginevra, dove fu nominato predicatore calvinista. Fu poi inviato nella Valle d'Angrogna, ad istruire nuovi fedeli e, dopo cinque mesi di predicazioni, fu invitato nel suo natio paese di Brusca per disputare con il francescano Angelo Malerba. Durante il viaggio di ritorno, fu arrestato a Barge, dove subì un primo interrogatorio, e condotto a Torino per essere rinchiuso nelle carceri del Parlamento. Qui dovette sottostare, anche da parte di alti ecclesiastici, a lunghi ed estenuanti interrogatori: in uno di questi, quando gli fu chiesto quanti erano i predicatori venuti da Ginevra, disse che erano 24, ma che altri erano pronti a seguirli e che il numero sarebbe stato così elevato da non trovare abbastanza legna da bruciarli tutti! Poco dopo, egli fu sconsacrato nella cattedrale di Torino e il 29 marzo 1558 salì sul patibolo in Piazza Castello: fu dapprima strangolato ed il corpo fu bruciato. Prima dell'esecuzione, si rivolse al boia dicendo: Amico mio, io ti ho di già perdonato, et hora di nuovo ti perdono con tutto il cuore.

4. Le tre certezze di Fernando Pessoa: Di tutto sono rimaste tre cose: la certezza che stavo sempre cominciando, la certezza che dovevo continuare e la certezza che sarei stato interrotto prima di terminare.
Fare dell’interruzione un cammino nuovo, Della paura una scala, del sogno un ponte, della ricerca un incontro.

5. Si legge in Huizinga questa osservazione: «Ciò che mi colpisce in questa crudeltà giudiziaria non è tanto la perversità quanto il piacere animalesco e brutale, la gioia festaiola che vi trovava il popolo. I cittadini di Mons acquistarono un brigante ad un prezzo elevatissimo per vederlo squartare, «del che il popolo fu lieto come se un nuovo santo fosse resuscitato». Si giunge al punto di rifiutare la confessione ai condannati a morte per essere ben sicuri che non sfuggiranno alle orribili pene dell’inferno. La morte e l’inferno esercitano un tale «fascino dell’orrore» che i predicatori ne fanno il tema abituale delle loro prediche. Sono straordinariamente in voga le processioni di penitenti e più ancora di quei «flagellanti» che precedono e circondano i grandi predicatori itineranti, come Vincenzo Ferreri (1350-1419). Nel corso di queste celebrazioni la «pietà popolare» si abbandona alle emozioni più violente. Tutti piangono a calde lacrime. Vincenzo Ferreri, «ogni volta che consacrava l’ostia, versava tante lacrime che gli astanti si mettevano a piangere e s’innalzava un pianto simile ad una lamentazione funebre. Il pianto gli era così dolce che malvolentieri lo asciugava». Si chiedeva a Dio «il battesimo quotidiano delle lacrime» mentre si meditava su ogni particolare la Passione di Cristo, sulla morte e sul pericolo dell’inferno. Le strofe drammatiche del Dies irae, le sedici ultime almeno, sono di quest’epoca, come la moltiplicazione delle messe per i defunti, i «lasciti» per le messe, celebrate con tutto un apparato di lamentazioni.

6. «Una smaniosa inquietudine tormenta l’animo umano: noi viaggiamo per terra e per mare in cerca della felicità. Ma questa felicità è proprio qui, vicino a noi» (Orazio, XI Epistola)

7. Franz Jagherstetter
a. “Finché si può avere la coscienza tranquilla di non essere un criminale, si può vivere in pace anche in prigione. Nel pensiero e nel sentimento umano preferiremmo talvolta vendicarci un po’, ma la fede cristiana non ce lo permette, dobbiamo ripagare il male con il bene. E soltanto l’amore è in grado di restaurare ogni volta di nuovo la pace. Potremmo ancora chiamarci cristiani, se noi poveri uomini per orgoglio non riuscissimo a perdonare il nostro prossimo?”.
b. “Quello che vogliamo vedere sono cristiani che riescono a resistere, in mezzo a queste tenebre, con superiore chiarezza, compostezza e sicurezza, che si oppongono con la più pura pace e serenità all’assenza di pace e di gioia, all’egoismo e all’odio; che non sono delle canne che si piegano di qua e di là al minimo vento, che non si limitano a guardare cosa fanno gli altri o gli amici, ma che si chiedono davvero cosa insegna la nostra fede. La coscienza può sopportare tutto ciò senza avere qualcosa di cui pentirsi? Se anche la situazione dovesse peggiorare, per chi vive nell’amore le cose si volgono sempre al meglio”.
c. “In questi tempi si sente spesso dire che si può fare tranquillamente tutto, perché la responsabilità è di altri: essa viene scaricata da uno all’altro e nessuno vuole essere responsabile di nulla. Così, secondo il pensiero corrente, solo uno o al massimo due devono pagare per tutti i crimini e gli orrori che in questi tempi vengono commessi. Può anche essere che alcune autorità, sia civili che spirituali, debbano portare una grossa responsabilità. Ma anziché rendere loro più lieve questa responsabilità si vuole dare loro anche il nostro fardello di colpe”.

25 maggio 2008

Giovanni 6,51-58
Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

1. Tutti credono, non è vero, mamma?». «Certo» disse la signora Macauley. «Se uno non crede, non è vivo. E non può godere per niente, e tanto meno in Paradiso, per quanto carica di cibi meravigliosi la sua tavola. E’ la fede che rende ogni cosa meravigliosa, non sono le cose in sé.». (Saroyan, La commedia umana).

2. Nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,51-58), Gesù riconduce la folla alla memoria dell’esperienza del deserto, per radicare una rivelazione nuova nella fede antica. Lo stesso Dio Liberatore che ha operato prodigi nella storia dei padri, si appresta ora ad operare meraviglie ancora più grandi. Il cap. 6 di Giovanni può essere diviso in due parti. Nella prima parte si narra la moltiplicazione dei pani, la reazione della gente, l’allontanamento di Gesù da una popolarità improvvisa e non voluta ed il cammino sulle acque tempestose verso i discepoli, nel buio della notte. Nella seconda il noto discorso del pane, pronunciato «il giorno dopo» (v. 22), nella «sinagoga di Cafarnao» (v. 59). Si tratta di un dialogo, che Gesù intraprende sollecitato dalle domande della folla: «Rabbi, quando sei venuto qua?». «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto». «Signore, dacci sempre questo pane». «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe?». «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».

3. La parola felice è ripetuta 55 volte nel Nuovo Testamento invece delle espressioni «devi» e «dovete» così care ai moralisti. Dopo aver lavato i piedi ai suoi apostoli Cristo li invita a comportarsi come lui nei confronti dei fratelli, a guisa di servitori; e dice loro: «Ora che sapete, felici voi se lo metterete in pratica» (Gv 13,17). Non dice: «Dovete».
Allo stesso modo, a colui che invita i poveri alla sua tavola, Cristo dice: «Felice te, perché essi non hanno di che ricambiarti » (Lc 14,13). «Felici quei servitori che il padrone trova, al suo ritorno, svegli ed intenti al lavoro» (Lc 12,37-46). L’uomo che ha scoperto un tesoro in un campo «con gioia vende tutto ciò che ha per comprarlo» (Mt 13,44). «C’è più felicità nel donare che nel ricevere» (At 20,35). Liberati dalla «maledizione della Legge», noi viviamo la felicità di non essere più «condannati» (Rom 4,6-9). I comandamenti della Nuova Alleanza invitano alla gioia e non si presentano più come doveri imposti dall’Autorità divina «sotto pena di morte» Colui che pratica «la legge perfetta, quella della libertà, troverà la felicità in ciò che fa» (Gc 1,23).

4. Per la fede e la coscienza d’Israele la festa della Pasqua resterà essenzialmente la festa del Memoriale dell’intervento salvifico di Dio. Questo Memoriale si fa grazie al mangiare in una cena. Attraverso il mangiare si compie una commemorazione che ricorda e attualizza l’avvenimento celebrato, ne permette la continuità. Gli alimenti della cena non sono più soltanto per la soddisfazione del corpo. Diventano soprattutto nutrimento per la fede. L’avvenimento della salvezza compiuto nel passato ma valido ancora oggi, è significato e veicolato dal segno delle erbe amare, dal segno del pane, dal segno dell’agnello. Il credente partecipa alla potenza dell’avvenimento salvifico, vi prende parte, ne diventa un contemporaneo. Gesù istituisce un nuovo memoriale con i gesti della frazione del pane e della coppa, del corpo che viene donato e della coppa condivisa che diventa calice di benedizione per tutti. Non siamo più maledetti, ma benedetti perché l’uccisione di Cristo, omicidio che si situa sulla grande trama peccaminosa della storia dell’umanità, morte maledetta e violenta rivela la compassione di Dio e la sua comunione con noi. Nell’Eucarestia non si ripete l’avvenimento della morte di Gesù. La sua morte è un avvenimento storico e quindi vissuto “una volta per tutte”, ma se ne fa il Memoriale sacramentale. Grazie a questo Memoriale viviamo la presenza del Signore che si dona e ci lasciamo traversare dal dinamismo originario di questo dono. L’Eucarestia è il memoriale del sacrificio di Gesù, ma sacrificio di comunione. È vero che oggi abbiamo qualche difficoltà con la parola “sacrificio”. Ci suona come se Gesù dovesse calmare Dio con un sacrificio. La parola vuol dire invece portare qualcosa di profano nella sfera divina. Sacrificare = fare santo, lasciare che Dio disponga di una cosa. Conviene tradurlo piuttosto con “abbandono”. Gesù compie il suo sacrificio di vita abbandonandosi per amore nelle mani del Padre. Ecco il vero sacrificio: accogliere nella propria esistenza i sentimenti stessi di Dio, facendo memoria della vittoria di Dio sulla violenza, sull’egocentrismo che divide l’uomo e l’umanità, per far nascere un mondo diverso. L’Eucarestia è il pane per il viaggio nella storia “finché” Egli venga. Ci fa entrare in quel clima d’attesa delle prime comunità, tutte tese verso il Cristo che doveva tornare per ricondurre la storia al Padre. L’Eucarestia ha a che fare con la storia, con questa tensione verso il Regno già iniziato e che deve ancora venire. L’Eucarestia è il viatico, il pane per il viaggio affinché noi non veniamo meno durante il cammino. L’Eucarestia è la festa della vicinanza di Dio. Dio si fa cibo per l’uomo che per la sua condizione umana rimane radicalmente affamato e debole.

5. Paolo non giudica l’Eucarestia dalla precisione del rito, dalla esecuzione esatta della liturgia, ma giudica l’Eucarestia dagli effetti. Fatemi vedere se avete ricevuto “degnamente” l’Eucarestia? Se voi avete capito che cosa vuoi dire rinnovare la Cena del Signore? Gli effetti dicono di no, perché c’è qualcuno in questa assemblea che è addirittura ubriaco, che ha mangiato a sazietà fino a starne male e ce ne sono altri che sono affamati, che hanno lo stomaco vuoto, che non si reggono in piedi. Voi dimostrate molto concretamente che non avete ricevuto l’Eucarestia. Il rito che avete celebrato è perfettamente inutile perché non ha prodotto in voi questi effetti di alterità.

6. La storia ci ha dato grandi esempi eucaristici, come il vescovo Romero che sull’altare dà la sua vita per la giustizia. Quando ci si chiede se Gesù è veramente presente nell’Eucarestia, se lì si rinnova veramente la presenza di Cristo, non cercate la spiegazione nell’ostia, non vi rompete la testa su come sarà presente. Questa sua presenza si manifesta nel credente, nella persona che riceve l’Eucarestia, che esce da questo banchetto ed è disposto a seguire Lui.

7. «Perché mi sono messo a piangere iersera tornando a casa?» disse. La signora mamma rispose: «E’ di compassione che piangevi» disse. «Compassione non per questa o quella persona che soffre, ma per tutte le cose, per la natura stessa delle cose. Se un uomo non ha compassione, è inumano perché è dalla compassione che viene il balsamo che guarisce. Solo i buoni piangono. Finché un uomo non ha pianto per le sofferenze del mondo, vale meno della terra su cui cammina, perché la terra alimenta il seme, la radice, la pianta, le foglie e il fiore, mentre lo spirito di un uomo insensibile è sterile e non produrrà mai niente, o soltanto orgoglio, che alla fine conduce al delitto in una forma o nell’altra, delitto contro il bene, o anche delitto contro la vita umana. Ci sarà sempre dolore nel mondo. Ma questo non vuol dire che si debba disperare. I buoni cercheranno sempre di cacciare il dolore dal mondo. Gli sciocchi non si accorgeranno neanche della sua esistenza, se non in loro stessi. E i cattivi spingeranno il dolore sempre più in fondo alle cose e lo spargeranno dovunque vanno. Ma ogni uomo è senza colpa, perché tanto i cattivi, come gli sciocchi, come i buoni, non hanno chiesto di venire sulla terra, né ci sono venuti soli, dal niente: sono venuti da molti altri mondi, e da moltitudini di gente. I cattivi non sanno d’essere cattivi, e perciò sono innocenti. Bisogna perdonare ai cattivi ogni giorno, e bisogna amarli, perché anche nell’uomo più malvagio c’è una parte di ognuno di noi, e una parte di lui è in ognuno di noi. Egli ci appartiene, e noi apparteniamo a lui. Nessuno di noi è separato da un altro. La preghiera del contadino è la mia preghiera, il delitto dell’assassino è il mio delitto. Iersera hai pianto, perché hai cominciato a renderti conto di queste cose». (Saroyan, La commedia umana).

8. «Trovandomi non del tutto sprovvisto di capacità di raziocinio, mi rendo conto che tutti i miei malesseri derivano dal non essermi reso conto a tempo che siamo in Occidente».
(Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno).

18 maggio 2008

Domenica 18 maggio 2008

Giovanni 3,16-18
In quel tempo, disse Gesù a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio”.

1. «Se dovessi scrivere una dottrina morale il libro avrebbe 100 pagine e 99 sarebbero bianche. Sull’ultima però scriverei: conosco un unico dovere, il dovere di amare». (Camus)

2. I pedagogisti più illuminati lo sostengono da tempo, i ragazzi poi non possono che essere d’accordo: la punizione non paga. Ora lo sostiene anche una ricerca scientifica americana, secondo la quale il castigo è addirittura un comportamento da perdenti. Nello studio, guidato da Martin Nowak della Harvard University e pubblicato su Nature, i ricercatori hanno valutato le diverse reazioni di un gruppo di volontari cui è stato chiesto di giocare al “Dilemma del prigioniero”, un problema di teoria dei giochi ampiamente studiato come modello in economia e sociologia. Il gioco cattura perfettamente la tensione che si crea fra gli interessi individuali e quelli del gruppo, e il classico paradigma della cooperazione. Lo studio ha rivelato che sono i perdenti a punire, mentre chi colleziona più punti al gioco tende invece a non punire mai. Uno dei coautori della ricerca non usa mezzi termini: «I vincenti non puniscono» dice David G. Rand, della Harvard University. Non lo fanno perché il castigo genera una spirale di vendetta, che può avere conseguenze distruttive per tutte le persone coinvolte. Nella versione del gioco utilizzata nell’esperimento, i volontari avevano diverse opzioni di vincita o perdita, collegate allo stesso tempo alle mosse degli altri. Ciascun giocatore può decidere di “cooperare” con gli avversari, di pensare solo ai propri interessi o di punire l’avversario, accettando al tempo stesso una perdita personale. Alla fine delle diverse prove i cinque giocatori risultati in cima alla classifica dei vincitori avevano scelto di non punire mai l’avversario. All’estremo opposto si sono piazzati quelli che avevano usato la punizione frequentemente, perdendo. Il castigo, concludono i ricercatori, non è una buona strategia per promuovere la cooperazione, ma corrisponde ad altre esigenze, come quella di rinforzare una gerarchia di comando o difendere una proprietà. E ammoniscono: in una società competitiva come quella di oggi, vince chi resiste alla tentazione di esasperare i conflitti, mentre chi sceglie di punire, perde, vittima della sua stessa arma.

3. Leggendo i suoi componimenti soprattutto le rime spirituali, mi sono resa conto che Vittoria Colonna cita la Bibbia continuamente. In una lettera indirizzata ad Ochino fa una riflessione sull’episodio dell’adultera, sottolineando come normalmente i teologi la ritraessero tremante davanti a Gesù, essendo egli “il giudice”. La Colonna propone una lettura diversa: “Et io ardisco dire il contrario”. A suo parere, quella donna non può essere tremante davanti a Gesù, perché non vede in Gesù un giudice, bensì il misericordioso: non tremante, dunque, ma piena di fiducia. Così pure nella lettura che fa della Maddalena, ella sottolinea l’importanza del suo essere penitente, ma anche apostola; una sottolineatura andata perduta nella storia dell’esegesi cristiana, la quale nella Maddalena ha preferito piuttosto vedere la prostituta pentita piuttosto che l’apostola, l’amata discepola. Domenica da Paradiso donna analfabeta, contadina, bizzoca e, quindi, “laica”, era una conoscitrice della Bibbia. Commentando 1 Cor 14,34 “Le donne tacciano in assemblea” afferma che “gli uomini di chiesa non hanno capito nulla, perché Paolo non poteva mettere il bavaglio a Dio. Dio nella sua libertà può chiamare chiunque a predicare; può mai Paolo dire “non possono parlare”. Dio ha chiamato tanti a predicare .... non può chiamare anche le donne? La chiesa è piena di donne” e continua citando santa Caterina da Siena e le grandi sante che hanno fatto ”grande” la Chiesa. Quello di Paolo era un richiamo esplicito e diretto alle donne di Corinto in quanto “facevano chiasso”. Domenica fornisce, dunque, una lettura storicizzata: facevano chiasso, cioè creavano disturbo. Richiama, poi, nuovamente Paolo affermando che: “Dio sceglie le donne perché vuol confondere, attraverso l’umiltà delle donne, l’orgoglio degli uomini”.

4. Il libro di Ruth parla di Noemi, una donna ebrea la quale, vittima della carestia, si trasferisce a Moab, in terra straniera, dove vede morire entrambi i figli rimanendo con le due nuore. Cessata la carestia, decide di tornare in Israele, ma solo Ruth la segue e lì, per sopravvivere, Ruth va a spigolare nella terra di Booz, loro parente. Non appena Noemi viene a conoscenza del fatto, tutta contenta, suggerisce alla nuora di farsi bella per attirarne l’attenzione. Ruth si fa trovare tutta agghindata nel letto di Booz e fa in modo che egli non solo la sposi, ma riscatti anche Noemi. Il testo è stato scritto durante il periodo di Esdra e Neemia che, tornati dall’esilio, assumono il ruolo di coloro che ricreano l’identità del popolo ebraico attraverso la costruzione del Tempio, la fedeltà alla Legge e, soprattutto, il mantenimento della purezza della razza, che vuol dire no ai matrimoni misti e di conseguenza divieto di sposare donne straniere. Sapere allora che il libro di Ruth è stato scritto contemporaneamente al libro di Esdra e Neemia significa riconoscere che si tratta un libro di tendenza, una risposta polemica all’orientamento, sottolineato da Esdra e Neemia, a non sposare donne straniere. E, addirittura, una straniera che ha sfamato Noemi (=Jsraele) ed è una straniera, addirittura, l’antenata di Davide. Siamo in presenza di un testo polemico, soprattutto verso la decisione di chiudere il popolo ebraico nei confronti dei popoli stranieri; un testo probabilmente scritto da una donna, da donne, in quanto difende i diritti delle donne: non a caso, infatti, il figlio che nascerà non sarà chiamato figlio né del marito di Noemi, né del marito di Ruth, bensì figlio di Noemi. C’è quindi una forte sottolineatura della personalità dì queste donne, che difendono i propri diritti attraverso i cavilli delle stessi leggi ebraiche, leggi fatte a vantaggio degli uomini e non delle donne. (Fischer)

5. Di solito noi, a Korogocho, ogni sera, dalle sei alle dieci, celebriamo due eucarestie a fianco dei letti dei malati di AIDS, per dire loro che Dio è il loro papi, che vuole loro bene. Mi ricordo che quella sera non c’era la piccola comunità cristiana; sono andato là con altri due preti e mi sono seduto a fianco del letto di Florence. Era già quasi notte: ho messo il pane e il vino, il Vangelo, e poi avevo in mano un cero. Ho detto a Florence: «Per favore, accendi il cero». Lo ha acceso. Il volto di Florence si è illuminato. Ma il volto era già tutto chiazzato, Florence era in fase terminale. Mi è venuto spontaneo chiederle: «Dimmi, Florence, ma chi è Dio per te?». Lei, di botto, in dialetto swahili, mi ha detto: «Dio è mamma». Sua madre l’aveva abbandonata la sera prima: stava morendo sola come un cane. Ecco perché eravamo andati da lei. «Posso farti una seconda domanda? Ma chi è il volto di Dio per te?». Lei è rimasta lì in silenzio, per un minuto. Poi, improvvisamente, sul suo viso nasce un’altro bellissimo sorriso e dice: «Sono io il volto di Dio!». Sono questi i volti, sono i volti dei crocifissi con cui dobbiamo confrontarci. Non c’è via di scampo. Non sono numeri! Per favore! Sono volti. Sono volti come i nostri. Sono i volti di Dio. Se Dio c’è, sono io il volto di Dio, come diceva Florence. (Zanotelli)

6. «Il mondo sarà salvato, se potrà esserlo, solo dagli indomabili. Senza di loro, sarebbe finita la nostra civiltà, la nostra cultura, ciò che amiamo. Essi danno alla nostra presenza sulla terra una giustificazione segreta. Questi indomabili, sono il sale della terra». (Gide)

7. «Dio non ci chiederà conto del numero dei salvati, ma del numero degli evangelizzati». (L. Milani)

11 maggio 2008

1. Ho cercato di spiegare ai miei genitori che la vita è uno strano regalo. All’inizio lo si sopravvaluta: si crede di aver ricevuto la vita eterna. Dopo lo si sottovaluta, lo si trova scadente, troppo corto, si sarebbe quasi pronti a gettarlo. Infine ci si rende conto che non era un regalo, ma solo un prestito. Allora si cerca di meritarlo. Qualunque cretino può godere della vita a dieci o vent’anni, ma a cento, quando non ci si può più muovere, bisogna avvalersi della propria intelligenza
(E. Schmitt, Oscar e la dama in rosa, Milano 2004)

2. Gv 20, 19-23
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati.

3.
"Sentiamo la responsabilità di elaborare, assieme ad altre esperienze personali e comunitarie, nuovi stili di vita e una nuova impostazione etica che siano coerenti con la lotta contro le disuguaglianze sociali e contro la distruzione dell’ambiente. Perciò vogliamo capire e appropriarci di quelle pratiche alternative esistenti, che sono impegnate a percorrere strade alternative nel campo della produzione, dello scambio e del consumo, al fine di uscire dalla logica di un consumismo individualistico, competitivo e antisolidale, proposto e imposto dall’attuale sistema economico-sociale. La costruzione di una società sobria equa e solidale è possibile: sta nascendo un nuovo paradigma che partendo dalla critica alla logica della crescita illimitata pone al centro delle esistenze personali e collettive un’economia del sufficiente per tutte e tutti. Ne sono testimonianza e segni tante pratiche di sobrietà e di solidarietà, espressione non di un volontariato subalterno al dominio capitalistico esistente, ma di una sperimentazione multiforme, che apre orizzonti di una universale convivialità. (...).Perché abbiamo intravisto la possibilità di un sistema diverso, socialmente più giusto, più equo economicamente e vitale ecologicamente... noi siamo qui".
  1. Il dio “denaro” è responsabile della miseria, dell’accumulazione finanziaria e di ogni speculazione, della trasformazione dei servizi pubblici in merce, del rifiuto delle case farmaceutiche private di produrre medicinali a basso costo, ecc. Se non cominciamo a dichiarare “reato” ogni speculazione e se le chiese non cominciano a parlarne in termini di “peccato contro il 7° comandamento” resta e si consolida la consapevolezza che speculare e accumulare si può.
  2. La creazione ha un suo giusto equilibrio: non dobbiamo “custodire” nulla, perchè diventa subito dominio, giustificato dalla lettera e dalla lettura di Genesi “Tu dominerai”.
  3. Il bisogno di comunità è sommerso, ma molto forte e senza risposte. La povertà è consapevolezza di aver bisogno degli altri e delle altre. Si tratta di vita alternativa, non antagonista. Ci sono esperienze delle “comunità e famiglia” di Milano e dei “condomini solidali” di Torino.
(XXXI Convegno nazionale CDB, 25/27 aprile 08. Società sobria, equae solidale. Culture e pratiche dal basso)

4.
Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro”. (P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1963, p. 42) -- “Prima della morte fisica, regna nei campi la liquidazione dell’individualità attraverso lo smantellamento del volto, la cancellazione dei tratti sotto la durezza delle ossa che ricopre una pelle privata di carne. La stessa magrezza che conforta l’aguzzino nel sentimento di non avere a che fare con uomini, ma con un residuo che bisogna eliminare ponendosi solo problemi amministrativi e tecnici”. (D.Le Breton, Des visages, p. 287) -- “Tre giorni dopo la liberazione di Buchenwald io caddi gravemente ammalato: un’intossicazione. Fui trasferito all’ospedale e passai due settimane fra la vita e la morte. Un giorno riuscii ad alzarmi, dopo aver raccolto tutte le mie forze. Volevo vedermi nello specchio che era appeso al muro di fronte: non mi ero più visto dal ghetto. Dal fondo dello specchio un cadavere mi contemplava. Il suo sguardo nei miei occhi non mi lascia più»: (E. Wiesel, La notte, Giuntina, Firenze 1980, p. 112) -- Mumintroll gioca a nascondino con gli amici. Si nasconde nel cappello grande e nero di un vecchio mago senza sapere che tutto ciò che vi entra cambia aspetto. Quando Mumintroll esce dal cappello i suoi amici si ritraggono spaventati: il suo aspetto è cambiato e quasi mostruoso. Mumintroll non sa di essere cambiato e non capisce perché gli amici fuggono. In preda al panico, intrappolato nella solitudine delle sue nuove sembianze, cerca di spiegare che è lui, ma loro scappano via urlando per il terrore. In quel momento arriva la mamma di Mumintroll, lo guarda stupita e gli domanda chi è. Lui la supplica con lo sguardo di riconoscerlo perché se lei non lo capirà, come potrà vivere? Allora lei lo guarda negli occhi, osserva profondamente l’anima di quella creatura che non assomiglia affatto al suo caro figlioletto e dice con un sorriso: «Ma tu sei il mio Mumintroll». Il mostro, l’estraneo, svanisce e Mumintroll torna a essere quello di prima."
(T. Jansson, Racconti dalla valle dei Mumin, Salani, Firenze 1995).

5.
Scenario: un campo allestito da «Médecìns sans frontières» al confine tra Thailandia e Cambogia. Due medici, Xavier Emmanuelli e Daniel Pavard, accolgono l’arrivo di un camion carico di persone ferite da colpi di mortaio. Di fronte a una giovane donna sventrata da un colpo di mortaio la diagnosi dei due medici è immediata e identica: non c’è nulla da fare. Ma mentre Xavier passa a un altro ferito, Daniel improvvisamente salta sulla piattaforma del camion, si pone dietro la donna ferita (che non aveva mai visto prima), la avvolge protettivo con le sue braccia lasciando che il viso di lei, traversato da sudori freddi, si appoggi sul suo petto, e comincia a parlarle delicatamente (senza che lei possa comprendere una sola parola) e a carezzarle i capelli. Morirà tra le braccia di uno sconosciuto, liberata non certo dalla morte né dai dolori, ma da quella paura che accompagna così spesso il morente: il terrore di morire solo, abbandonato. E di morire così due volte. «Accompagnando la solitudine dell’essere vivente fino all’estremo limite in cui è possibile tenergli compagnia, Daniel ha abolito la solitudine di questa donna morente e, nello stesso tempo, ora lo so con certezza, la solitudine umana universale, per un istante”.
(X.Emmanuelli, Prelude a la symphonie du nuoveau monde, Odile Jacob, Paris 1998, pp.199-123)

6.
«Portare i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). La legge di Cristo è una legge del «portare». Portare vuol dire sopportare, soffrire insieme. Il fratello è un peso per il cristiano. Solo se è un peso, l’altro è veramente un fratello e non un oggetto da dominare. Il peso degli uomini per Dio stesso è stato così grave che Egli ha dovuto piegarsi sotto questo peso e lasciarsi crocifiggere. Dio ha veramente sopportato gli uomini nel corpo di Cristo ... Nel sopportare gli uomini Dio ha mantenuto la comunione con loro. E la legge di Cristo che si è compiuta sulla croce. Ed i cristiani partecipano a questa legge. Essi devono sopportare il fratello; ma quello che è più importante, essi sono anche in grado di portare il fratello, sotto la legge che è compiuta in Cristo. La Scrittura parla spesso di «portare». Essa esprime con queste parole tutta l’opera di Cristo: «Erano le nostre malattie che Egli portava; erano i nostri dolori quelli di cui si era caricato» (Is 53,4-19).
(Dietrich Bonhoeffer)

7.
Poiché Abba Bishoi, monaco copto del IV-V secolo fruiva di frequenti visioni di Cristo, alcuni monaci gli chiesero di guidarli a incontrare Cristo. Disse ai monaci di recarsi in un certo posto nel deserto, dove avrebbero trovato Cristo ad attenderli. Lungo il cammino essi videro, ai lati della strada, un uomo anziano, malato e sfinito, che chiedeva loro di portarlo perché non ce la faceva più a camminare. Ma essi, desiderosi di incontrare Cristo, ignorarono le suppliche dell’anziano. In coda alloro gruppo giunse Bishoi che, quando vide l’anziano malato, se lo caricò sulle spalle portandolo lungo la strada. Giunto là dove i monaci attendevano Cristo sentì il peso dell’uomo farsi più leggero, poté rialzare la schiena e constatare che l’anziano era scomparso. Allora rivelò: Cristo era seduto lungo la strada, e aspettava qualcuno che lo aiutasse. Nella loro fretta di vedere Cristo si erano dimenticati di essere cristiani.
(O. F. A. Meinardus, Monks and Monasteries of the Egyptian Deserts, Cairo 1992, p. 105).

27 aprile 2008

1. “La perfezione è opera del cielo: perfezionarsi è il dovere dell’uomo”. (Confucio)

2. Gv14,15-21
"In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama, Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui."

3. Il liberale e anticlericale mite Urbano Rattazzi lo definiva «la più grande meraviglia del secolo XIX». Più acuto di Rattazzi, era stato il confessore di don Bosco a Torino, don Cafasso: «Se non fossi certo che lavora per la gloria di Dio, direi che è un uomo pericoloso, più per quel che non lascia trasparire, che per quel che dà a conoscere di sé. Don Bosco, insomma, è un enigma». L’antiagiografo deve tener conto dello straordinario responso grafologico del padre Girolamo Moretti, reso sulla scrittura del soggetto ignorando naturalmente di chi si trattasse. Il carattere di don Bosco è visto come volontà traboccante di piegare e di dominare, di raggiungere fini a qualunque costo, eccessiva scaltrezza in azione. Stupefacente è la conclusione del pio grafologo: «Il carattere del soggetto tende ad essere dominato da una insincerità cosi bene architettata da rovinare un’intera generazione ed essere così uno di quegli individui che sarebbe meglio non avessero mai aperto gli occhi alla luce. Si deve aggiungere che il soggetto ha molta facilità all’intenerimento sessuale, una spinta all’affettività di languore per cui, col complesso delle qualità descritte, metterebbe in azione ogni sforzo per colpire la vulnerabilità delle anime e piegarle ai suoi intendimenti morbosi». C’è un documento iconografico notevole di questa «affettività di languore»: la confessione davanti al Fotografo, in bella posa, del chierichetto Paolo Albera, tra altri preti e ragazzi. Don Bosco aveva voluto che gli poggiasse la fronte sull’orecchio. Questo intenerimento non andava che ai «giovanetti»; aveva un vero orrore del contatto femminile. Vedendosi una volta insaponare la faccia dalla moglie del barbiere, scappò via insaponato dalla bottega. Nessun santo ha lasciato, come ultime parole scritte di suo pugno, un pensiero così strano come don Bosco: «I giovanetti sono la delizia di Gesù e Maria».

4. La «grave malattia» a cui accenna don Bosco, fu una forma seria di esaurimento depressivo, che si protrasse fino ai primi mesi del seguente anno scolastico. Il cibo gli ripugnava, ed era prostrato da un’ostinata insonnia. Dopo parecchi mesi il medico consigliò riposo assoluto a letto. Vi rimase una trentina di giorni.
Riuscì a riprendersi in maniera curiosa, quasi incredibile. Sua madre, saputo che era a letto da parecchi giorni, arrivò portando un grosso pane di miglio e una bottiglia di barbera vecchia, commovente questa popolana. Le hanno detto che suo figlio è ammalato, e per i contadini la malattia è una sola, la denutrizione. Anche la medicina è una sola, nutrirsi bene. Sulle colline non si sa niente delle malattie dai nomi difficili e delle medicine sofisticate. E Giovanni sta al gioco. Non vuole che sua madre si senta umiliata dal rifiuto dei suoi doni. Prende un boccone di pane, un sorso di vino vecchio. E quasi senza accorgersene va avanti. A sorsi e bocconi il pane è mangiato, il vino bevuto. E alla fine arriva un sonno profondo «che durò una notte e due giorni consecutivi». Quando si svegliò, si sentì guarito.

5. "Oggi ci sono innumerevoli Ponzio Pilato che., lavandosi le mani e tutto, finiscono con l’essere sporchissimi".
(Albert Samain)

6. "Io in Dio ci credo e voglio vivere nella Chiesa, ma possibile che ciò comporti la rinuncia a pretendere che la ricchezza sia spesa in modo da assicurare un lavoro libero per tutti? Se i santi non sono adatti per questo mondo tienili nel chiostro e stacci anche te lontano dal fango politico. Può darsi che allora ti ci raggiunga anch ‘io attratto da questo distacco totale che vi farebbe diversi da tutto e tutti. Ma se ti chini su questa terra e ci additi degli uomini cui affidare la nostra sorte terrena fa che la loro santità risplenda in ogni loro atto, trasfiguri le loro leggi, suggelli di un sigillo divino inconfondibile e inimitabile il loro modo digovernare".
Via Piero confessalo, questo non è stato il volto dei governi che abbiamo espresso. È troppo chiaro che il governo non ha osato nulla che fosse segno di una fede nel Dio che aiuta i giusti, nel Dio che è Provvidenza per chi osa amarlo, per chi osa abbandonarsi filialmente nelle sue paterne mani. Piero ti prego, non mi rispondere che il governo fa quel che può, che è il meno peggio, che senza di lui chissà dove si poteva essere arrivati. Questi discorsi si possono fare a un politico, a un economista, a chiunque vive su questa terra per questa terra. Ma a un prete come sei te come sono io, non lo dire. Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola, e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo? Girale una per una le parrocchie toscane. Va’ da quei buoni parroci che han donato la vita intera al loro gregge. Elenca loro uno per uno i nomi dei ragazzi del loro popolo, il nome degli uomini. Li vedrai diventar bianchi di pena e umiliazione: «Questo non viene, questo non vien più, questo veniva sempre, questo da che entrò in fabbrica...». Non son solo, Piero, siamo legione. Parroci armati fino ai denti? sconfitti da un nemico senz’armi”.
(Don Lorenzo Milani)

7. "Dovrei arrendermi a 30 anni come s’arrende un vecchio di 60 scoraggiato e scettico? Dovrei buttarmi soltanto alla preghiera anche per questo? Rimettermi soltanto all’azione dello Spirito Santo? Lo faccio, credimi, ma lo faccio col rimorso di chi sa che l’abito che porta non è quello della Trappa, ma un abito che impegna a cercare anche le vie terrene di portare la Grazia. Quando quattr’anni fa arrivò l’ordine d’essere severi coi comunisti io l’ho ubbidito. Per quel decreto mi sono lasciato odiare, abbandonare, disprezzare da tanti miei poveri figlioli. Non ho alzato un lamento contro il Papa perché sapevo che ha ragione.
Ma ora che son stato quattr’anni sulla breccia per lui. Ora che con tanta sofferenza ho chiarito ai poveri l’assoluto rifiuto del marxismo da parte della Chiesa e mia, e ci ho rimesso tanti miei figlioli, sangue del mio sangue, ora non voglio sentirmi dare del demagogo solo perché vo in cerca delle pecorelle smarrite. Voglio essere trattato alla pari dei missionari. Il Papa s’è fatto anche guerriero quando partiva contro i turchi con le navi. Perché i turchi devastavano il suo ovile. Impedivano, il suo ministero in oriente, la sua preghiera al Sepolcro. Ecco perché anch’io ho diritto di gridare contro il Baffi e il Governo. Non per il pane che strappano al mio bambino. Ma perché strappano i1 mio bambino dalle mie braccia. E son sacerdote anche proprio in quest’atto. E non ho deviato dalla tradizione apostolica e pastorale. Perché ho in mano la Pisside sola. Non l’ho deposta sull’altare. Non ho deposto la tonaca per correre sulle barricate. Nelle mie mani consacrate ho solo i Sacramenti. e coi piedi do una pedata a un ostacolo caduco che mi sbarra la strada."
(Don Lorenzo Milani)

8. "Quando ci sembra che la bellezza ha disertato il mondo, è segno che ha disertato anzitutto il nostro cuore".
(Georges Duhamel)