Giovanni 6,51-58
Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
1. Tutti credono, non è vero, mamma?». «Certo» disse la signora Macauley. «Se uno non crede, non è vivo. E non può godere per niente, e tanto meno in Paradiso, per quanto carica di cibi meravigliosi la sua tavola. E’ la fede che rende ogni cosa meravigliosa, non sono le cose in sé.». (Saroyan, La commedia umana).
2. Nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,51-58), Gesù riconduce la folla alla memoria dell’esperienza del deserto, per radicare una rivelazione nuova nella fede antica. Lo stesso Dio Liberatore che ha operato prodigi nella storia dei padri, si appresta ora ad operare meraviglie ancora più grandi. Il cap. 6 di Giovanni può essere diviso in due parti. Nella prima parte si narra la moltiplicazione dei pani, la reazione della gente, l’allontanamento di Gesù da una popolarità improvvisa e non voluta ed il cammino sulle acque tempestose verso i discepoli, nel buio della notte. Nella seconda il noto discorso del pane, pronunciato «il giorno dopo» (v. 22), nella «sinagoga di Cafarnao» (v. 59). Si tratta di un dialogo, che Gesù intraprende sollecitato dalle domande della folla: «Rabbi, quando sei venuto qua?». «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto». «Signore, dacci sempre questo pane». «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe?». «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
3. La parola felice è ripetuta 55 volte nel Nuovo Testamento invece delle espressioni «devi» e «dovete» così care ai moralisti. Dopo aver lavato i piedi ai suoi apostoli Cristo li invita a comportarsi come lui nei confronti dei fratelli, a guisa di servitori; e dice loro: «Ora che sapete, felici voi se lo metterete in pratica» (Gv 13,17). Non dice: «Dovete».
Allo stesso modo, a colui che invita i poveri alla sua tavola, Cristo dice: «Felice te, perché essi non hanno di che ricambiarti » (Lc 14,13). «Felici quei servitori che il padrone trova, al suo ritorno, svegli ed intenti al lavoro» (Lc 12,37-46). L’uomo che ha scoperto un tesoro in un campo «con gioia vende tutto ciò che ha per comprarlo» (Mt 13,44). «C’è più felicità nel donare che nel ricevere» (At 20,35). Liberati dalla «maledizione della Legge», noi viviamo la felicità di non essere più «condannati» (Rom 4,6-9). I comandamenti della Nuova Alleanza invitano alla gioia e non si presentano più come doveri imposti dall’Autorità divina «sotto pena di morte» Colui che pratica «la legge perfetta, quella della libertà, troverà la felicità in ciò che fa» (Gc 1,23).
4. Per la fede e la coscienza d’Israele la festa della Pasqua resterà essenzialmente la festa del Memoriale dell’intervento salvifico di Dio. Questo Memoriale si fa grazie al mangiare in una cena. Attraverso il mangiare si compie una commemorazione che ricorda e attualizza l’avvenimento celebrato, ne permette la continuità. Gli alimenti della cena non sono più soltanto per la soddisfazione del corpo. Diventano soprattutto nutrimento per la fede. L’avvenimento della salvezza compiuto nel passato ma valido ancora oggi, è significato e veicolato dal segno delle erbe amare, dal segno del pane, dal segno dell’agnello. Il credente partecipa alla potenza dell’avvenimento salvifico, vi prende parte, ne diventa un contemporaneo. Gesù istituisce un nuovo memoriale con i gesti della frazione del pane e della coppa, del corpo che viene donato e della coppa condivisa che diventa calice di benedizione per tutti. Non siamo più maledetti, ma benedetti perché l’uccisione di Cristo, omicidio che si situa sulla grande trama peccaminosa della storia dell’umanità, morte maledetta e violenta rivela la compassione di Dio e la sua comunione con noi. Nell’Eucarestia non si ripete l’avvenimento della morte di Gesù. La sua morte è un avvenimento storico e quindi vissuto “una volta per tutte”, ma se ne fa il Memoriale sacramentale. Grazie a questo Memoriale viviamo la presenza del Signore che si dona e ci lasciamo traversare dal dinamismo originario di questo dono. L’Eucarestia è il memoriale del sacrificio di Gesù, ma sacrificio di comunione. È vero che oggi abbiamo qualche difficoltà con la parola “sacrificio”. Ci suona come se Gesù dovesse calmare Dio con un sacrificio. La parola vuol dire invece portare qualcosa di profano nella sfera divina. Sacrificare = fare santo, lasciare che Dio disponga di una cosa. Conviene tradurlo piuttosto con “abbandono”. Gesù compie il suo sacrificio di vita abbandonandosi per amore nelle mani del Padre. Ecco il vero sacrificio: accogliere nella propria esistenza i sentimenti stessi di Dio, facendo memoria della vittoria di Dio sulla violenza, sull’egocentrismo che divide l’uomo e l’umanità, per far nascere un mondo diverso. L’Eucarestia è il pane per il viaggio nella storia “finché” Egli venga. Ci fa entrare in quel clima d’attesa delle prime comunità, tutte tese verso il Cristo che doveva tornare per ricondurre la storia al Padre. L’Eucarestia ha a che fare con la storia, con questa tensione verso il Regno già iniziato e che deve ancora venire. L’Eucarestia è il viatico, il pane per il viaggio affinché noi non veniamo meno durante il cammino. L’Eucarestia è la festa della vicinanza di Dio. Dio si fa cibo per l’uomo che per la sua condizione umana rimane radicalmente affamato e debole.
5. Paolo non giudica l’Eucarestia dalla precisione del rito, dalla esecuzione esatta della liturgia, ma giudica l’Eucarestia dagli effetti. Fatemi vedere se avete ricevuto “degnamente” l’Eucarestia? Se voi avete capito che cosa vuoi dire rinnovare la Cena del Signore? Gli effetti dicono di no, perché c’è qualcuno in questa assemblea che è addirittura ubriaco, che ha mangiato a sazietà fino a starne male e ce ne sono altri che sono affamati, che hanno lo stomaco vuoto, che non si reggono in piedi. Voi dimostrate molto concretamente che non avete ricevuto l’Eucarestia. Il rito che avete celebrato è perfettamente inutile perché non ha prodotto in voi questi effetti di alterità.
6. La storia ci ha dato grandi esempi eucaristici, come il vescovo Romero che sull’altare dà la sua vita per la giustizia. Quando ci si chiede se Gesù è veramente presente nell’Eucarestia, se lì si rinnova veramente la presenza di Cristo, non cercate la spiegazione nell’ostia, non vi rompete la testa su come sarà presente. Questa sua presenza si manifesta nel credente, nella persona che riceve l’Eucarestia, che esce da questo banchetto ed è disposto a seguire Lui.
7. «Perché mi sono messo a piangere iersera tornando a casa?» disse. La signora mamma rispose: «E’ di compassione che piangevi» disse. «Compassione non per questa o quella persona che soffre, ma per tutte le cose, per la natura stessa delle cose. Se un uomo non ha compassione, è inumano perché è dalla compassione che viene il balsamo che guarisce. Solo i buoni piangono. Finché un uomo non ha pianto per le sofferenze del mondo, vale meno della terra su cui cammina, perché la terra alimenta il seme, la radice, la pianta, le foglie e il fiore, mentre lo spirito di un uomo insensibile è sterile e non produrrà mai niente, o soltanto orgoglio, che alla fine conduce al delitto in una forma o nell’altra, delitto contro il bene, o anche delitto contro la vita umana. Ci sarà sempre dolore nel mondo. Ma questo non vuol dire che si debba disperare. I buoni cercheranno sempre di cacciare il dolore dal mondo. Gli sciocchi non si accorgeranno neanche della sua esistenza, se non in loro stessi. E i cattivi spingeranno il dolore sempre più in fondo alle cose e lo spargeranno dovunque vanno. Ma ogni uomo è senza colpa, perché tanto i cattivi, come gli sciocchi, come i buoni, non hanno chiesto di venire sulla terra, né ci sono venuti soli, dal niente: sono venuti da molti altri mondi, e da moltitudini di gente. I cattivi non sanno d’essere cattivi, e perciò sono innocenti. Bisogna perdonare ai cattivi ogni giorno, e bisogna amarli, perché anche nell’uomo più malvagio c’è una parte di ognuno di noi, e una parte di lui è in ognuno di noi. Egli ci appartiene, e noi apparteniamo a lui. Nessuno di noi è separato da un altro. La preghiera del contadino è la mia preghiera, il delitto dell’assassino è il mio delitto. Iersera hai pianto, perché hai cominciato a renderti conto di queste cose». (Saroyan, La commedia umana).
8. «Trovandomi non del tutto sprovvisto di capacità di raziocinio, mi rendo conto che tutti i miei malesseri derivano dal non essermi reso conto a tempo che siamo in Occidente».
(Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno).
Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
1. Tutti credono, non è vero, mamma?». «Certo» disse la signora Macauley. «Se uno non crede, non è vivo. E non può godere per niente, e tanto meno in Paradiso, per quanto carica di cibi meravigliosi la sua tavola. E’ la fede che rende ogni cosa meravigliosa, non sono le cose in sé.». (Saroyan, La commedia umana).
2. Nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,51-58), Gesù riconduce la folla alla memoria dell’esperienza del deserto, per radicare una rivelazione nuova nella fede antica. Lo stesso Dio Liberatore che ha operato prodigi nella storia dei padri, si appresta ora ad operare meraviglie ancora più grandi. Il cap. 6 di Giovanni può essere diviso in due parti. Nella prima parte si narra la moltiplicazione dei pani, la reazione della gente, l’allontanamento di Gesù da una popolarità improvvisa e non voluta ed il cammino sulle acque tempestose verso i discepoli, nel buio della notte. Nella seconda il noto discorso del pane, pronunciato «il giorno dopo» (v. 22), nella «sinagoga di Cafarnao» (v. 59). Si tratta di un dialogo, che Gesù intraprende sollecitato dalle domande della folla: «Rabbi, quando sei venuto qua?». «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto». «Signore, dacci sempre questo pane». «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe?». «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
3. La parola felice è ripetuta 55 volte nel Nuovo Testamento invece delle espressioni «devi» e «dovete» così care ai moralisti. Dopo aver lavato i piedi ai suoi apostoli Cristo li invita a comportarsi come lui nei confronti dei fratelli, a guisa di servitori; e dice loro: «Ora che sapete, felici voi se lo metterete in pratica» (Gv 13,17). Non dice: «Dovete».
Allo stesso modo, a colui che invita i poveri alla sua tavola, Cristo dice: «Felice te, perché essi non hanno di che ricambiarti » (Lc 14,13). «Felici quei servitori che il padrone trova, al suo ritorno, svegli ed intenti al lavoro» (Lc 12,37-46). L’uomo che ha scoperto un tesoro in un campo «con gioia vende tutto ciò che ha per comprarlo» (Mt 13,44). «C’è più felicità nel donare che nel ricevere» (At 20,35). Liberati dalla «maledizione della Legge», noi viviamo la felicità di non essere più «condannati» (Rom 4,6-9). I comandamenti della Nuova Alleanza invitano alla gioia e non si presentano più come doveri imposti dall’Autorità divina «sotto pena di morte» Colui che pratica «la legge perfetta, quella della libertà, troverà la felicità in ciò che fa» (Gc 1,23).
4. Per la fede e la coscienza d’Israele la festa della Pasqua resterà essenzialmente la festa del Memoriale dell’intervento salvifico di Dio. Questo Memoriale si fa grazie al mangiare in una cena. Attraverso il mangiare si compie una commemorazione che ricorda e attualizza l’avvenimento celebrato, ne permette la continuità. Gli alimenti della cena non sono più soltanto per la soddisfazione del corpo. Diventano soprattutto nutrimento per la fede. L’avvenimento della salvezza compiuto nel passato ma valido ancora oggi, è significato e veicolato dal segno delle erbe amare, dal segno del pane, dal segno dell’agnello. Il credente partecipa alla potenza dell’avvenimento salvifico, vi prende parte, ne diventa un contemporaneo. Gesù istituisce un nuovo memoriale con i gesti della frazione del pane e della coppa, del corpo che viene donato e della coppa condivisa che diventa calice di benedizione per tutti. Non siamo più maledetti, ma benedetti perché l’uccisione di Cristo, omicidio che si situa sulla grande trama peccaminosa della storia dell’umanità, morte maledetta e violenta rivela la compassione di Dio e la sua comunione con noi. Nell’Eucarestia non si ripete l’avvenimento della morte di Gesù. La sua morte è un avvenimento storico e quindi vissuto “una volta per tutte”, ma se ne fa il Memoriale sacramentale. Grazie a questo Memoriale viviamo la presenza del Signore che si dona e ci lasciamo traversare dal dinamismo originario di questo dono. L’Eucarestia è il memoriale del sacrificio di Gesù, ma sacrificio di comunione. È vero che oggi abbiamo qualche difficoltà con la parola “sacrificio”. Ci suona come se Gesù dovesse calmare Dio con un sacrificio. La parola vuol dire invece portare qualcosa di profano nella sfera divina. Sacrificare = fare santo, lasciare che Dio disponga di una cosa. Conviene tradurlo piuttosto con “abbandono”. Gesù compie il suo sacrificio di vita abbandonandosi per amore nelle mani del Padre. Ecco il vero sacrificio: accogliere nella propria esistenza i sentimenti stessi di Dio, facendo memoria della vittoria di Dio sulla violenza, sull’egocentrismo che divide l’uomo e l’umanità, per far nascere un mondo diverso. L’Eucarestia è il pane per il viaggio nella storia “finché” Egli venga. Ci fa entrare in quel clima d’attesa delle prime comunità, tutte tese verso il Cristo che doveva tornare per ricondurre la storia al Padre. L’Eucarestia ha a che fare con la storia, con questa tensione verso il Regno già iniziato e che deve ancora venire. L’Eucarestia è il viatico, il pane per il viaggio affinché noi non veniamo meno durante il cammino. L’Eucarestia è la festa della vicinanza di Dio. Dio si fa cibo per l’uomo che per la sua condizione umana rimane radicalmente affamato e debole.
5. Paolo non giudica l’Eucarestia dalla precisione del rito, dalla esecuzione esatta della liturgia, ma giudica l’Eucarestia dagli effetti. Fatemi vedere se avete ricevuto “degnamente” l’Eucarestia? Se voi avete capito che cosa vuoi dire rinnovare la Cena del Signore? Gli effetti dicono di no, perché c’è qualcuno in questa assemblea che è addirittura ubriaco, che ha mangiato a sazietà fino a starne male e ce ne sono altri che sono affamati, che hanno lo stomaco vuoto, che non si reggono in piedi. Voi dimostrate molto concretamente che non avete ricevuto l’Eucarestia. Il rito che avete celebrato è perfettamente inutile perché non ha prodotto in voi questi effetti di alterità.
6. La storia ci ha dato grandi esempi eucaristici, come il vescovo Romero che sull’altare dà la sua vita per la giustizia. Quando ci si chiede se Gesù è veramente presente nell’Eucarestia, se lì si rinnova veramente la presenza di Cristo, non cercate la spiegazione nell’ostia, non vi rompete la testa su come sarà presente. Questa sua presenza si manifesta nel credente, nella persona che riceve l’Eucarestia, che esce da questo banchetto ed è disposto a seguire Lui.
7. «Perché mi sono messo a piangere iersera tornando a casa?» disse. La signora mamma rispose: «E’ di compassione che piangevi» disse. «Compassione non per questa o quella persona che soffre, ma per tutte le cose, per la natura stessa delle cose. Se un uomo non ha compassione, è inumano perché è dalla compassione che viene il balsamo che guarisce. Solo i buoni piangono. Finché un uomo non ha pianto per le sofferenze del mondo, vale meno della terra su cui cammina, perché la terra alimenta il seme, la radice, la pianta, le foglie e il fiore, mentre lo spirito di un uomo insensibile è sterile e non produrrà mai niente, o soltanto orgoglio, che alla fine conduce al delitto in una forma o nell’altra, delitto contro il bene, o anche delitto contro la vita umana. Ci sarà sempre dolore nel mondo. Ma questo non vuol dire che si debba disperare. I buoni cercheranno sempre di cacciare il dolore dal mondo. Gli sciocchi non si accorgeranno neanche della sua esistenza, se non in loro stessi. E i cattivi spingeranno il dolore sempre più in fondo alle cose e lo spargeranno dovunque vanno. Ma ogni uomo è senza colpa, perché tanto i cattivi, come gli sciocchi, come i buoni, non hanno chiesto di venire sulla terra, né ci sono venuti soli, dal niente: sono venuti da molti altri mondi, e da moltitudini di gente. I cattivi non sanno d’essere cattivi, e perciò sono innocenti. Bisogna perdonare ai cattivi ogni giorno, e bisogna amarli, perché anche nell’uomo più malvagio c’è una parte di ognuno di noi, e una parte di lui è in ognuno di noi. Egli ci appartiene, e noi apparteniamo a lui. Nessuno di noi è separato da un altro. La preghiera del contadino è la mia preghiera, il delitto dell’assassino è il mio delitto. Iersera hai pianto, perché hai cominciato a renderti conto di queste cose». (Saroyan, La commedia umana).
8. «Trovandomi non del tutto sprovvisto di capacità di raziocinio, mi rendo conto che tutti i miei malesseri derivano dal non essermi reso conto a tempo che siamo in Occidente».
(Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno).