Domenica 13 aprile 2008
Giovanni 10,1-10
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
1. Talvolta dubito che sia possibile salvare l’uomo di oggi. Ma è ancora possibile salvare i figli di quest’uomo, nel corpo e nello spirito?
(A. Camus Prometeo all’inferno)
2. Pietro, nel suo discorso, va all’essenziale, al cuore della fede, e lo sintetizza così: “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”. E’ bastato questo per sentirsi trafiggere il cuore. Oggi abbiamo fatto aggiunte, quante ne abbiamo fatte, quanti documenti, e quanti itinerari, e lunghi anche! Anche per il Battesimo. Ma allora bastava il cuore. Pietro aveva fatto un incontro di catechesi, e i presenti si sentirono trafiggere il cuore e ricevettero il Battesimo. P. Camillo De Piaz, nel lontano 1972, diceva: “Spesso ci tormentiamo domandandoci in che cosa consiste propriamente la fede, il vivere nella fede: se nel pensare tutti allo stesso modo, se nel far corpo per contare, per essere potenti, per dominare, se nella totale acquiescenza ai comandi che vengono dall’alto (come se ci trovassimo in certi eserciti e Cristo avesse parlato di sergenti e generali anziché di pastori). Oppure se la fede sta nel credere che tutto si risolve nell’allinearsi passivamente a quello che l’autorità proclama e basta, vedete invece come Pietro, in quel momento decisivo ed esemplare, mette risolutamente in luce, con vera autorità, quello che conta, l’essenza dell’annuncio, il vero impegno: ricercare lo Spirito e testimoniare che in Gesù opera Dio, e qual è il nostro vero, il nostro unico Signore, e quindi la ragione delle nostre libertà di fronte alle signorie di questo mondo”.
Se stiamo al Vangelo di Giovanni, il titolo di pastore non può essere sbrigativamente offerto ad altri pastori. Nel recinto delle pecore altri entrano barando, entrano non per la porta. Dalla porta, la porta dell’autenticità, la porta della sua Pasqua, la porta di chi dà la vita, è entrato Gesù. Il guardiano del recinto, Dio, ha aperto a Gesù la porta delle pecore. L’autenticità di Gesù, del suo essere pastore, sta nelle cicatrici delle sue mani. Entra a porte chiuse e mostra, quale segno di riconoscimento, le trafitture dei chiodi. Se c’è un’immagine che si addice profondamente a Gesù non è tanto quella del sacerdote, l’uomo del culto, ma quella del pastore. Il pastore passa la vita con le pecore, sta con le pecore. E dovrebbe nascere una familiarità tra noi e lui: ne conosci la voce, la distingui da quella degli estranei. Tu sei così abituato alla sua lunghezza d’onda che ti viene normale ravvisare, in ciò che vedi e in ciò che ascolti, vicinanze o distanze dal Vangelo. Questa familiarità è condizione essenziale per non cadere nella menzogna, quando alcuni di noi si danno la qualifica di pastori. Che cosa conosci, che cosa condividi, ti porti addosso l’odore della gente? Un’avventura che non è e non sarà mai di imprigionamento. Il pastore apre il recinto e porta fuori, fuori dall’asfissia dei nostri progetti, lungo la strada della libertà evangelica.
(don Casati)
3. Fu in quel momento di gravissima crisi della nostra parrocchia che Paolo VI e il cardinale Ugo Poletti mi chiamarono: “Pietro, tocca a te”. Non fu un invito, ma un ordine al quale non pensai minimamente di sottrarmi. Era il settembre del 1975. Avevo trentanove anni, ho appena passato i settanta. Da quel giorno la mia vita è cambiata, ha preso la rotta di un destino indicato da lassù. La via per raggiungere la mia attuale felicità è stata aspra, piena di ostacoli e di sfide. Tieni conto che questa parrocchia ha una gestione laica. Dopo la mia nomina si riunirono le comunità di base del quartiere e partecipai a quell’assemblea, seduto tra la gente. La protesta sfociò in una sorta di proclama: “Ce l’abbiamo con il vescovo, perché il parroco dobbiamo nominarlo noi, non lui”. Poi uno disse: “Don Sigurani, parli lei”. Io rimasi seduto sulla mia sedia, impassibile. Secondo invito, tutti stupiti del mio silenzio. Poi finalmente mi alzai e dissi: “Se mi invitate a parlare non come don Sigurani, ma come parroco, sono a vostra disposizione”. Il gelo si sciolse e io dissi che non ero là per inquadrarli con un’azione di ordine pubblico. Chi lo pensa si sbaglia, perché un pastore non cammina mai davanti alle pecore, ma in mezzo a loro o dietro. E sono le pecore a stabilire quando fermarsi per mangiare e bere. E il pastore si adegua. Poi conclusi perentorio: “La prossima assemblea la convoco io, il vostro parroco”. A quei tempi la chiesa era quasi vuota, le azioni di violenza si erano spinte sino a interrompere le messe, c’era aria cattiva in Italia e pessima attorno alla mia parrocchia. Ma la gente è tornata, mi ha dato fiducia, ha accolto il mio programma. E il quartiere di destra, dei benpensanti, è diventato il quartiere della solidarietà senza confini. Oggi assistiamo migliaia di emarginati, difendendo e rispettando la loro dignità. Dissi che non avrei mai accettato una lira dallo Stato o da una qualsiasi istituzione. Saremmo diventati ostaggio della politica. Un solo finanziamento: la carità. Il quartiere ha risposto in pieno: può permetterselo. Abbiamo fatto cose grandi non solo qui, ma anche in una piccola fetta di deserto, in una seconda patria lontana, nel Sud della Tunisia. Ti faccio tre nomi: Douz, Kébili, Nefta. Non ti dicono nulla, ma anche in queste città lunisine ci sono la nostra casa e il nostro cuore. Presidi romani, ma intestati a loro, ai poveri di quella terra. Noi non siamo proprietari di nulla, ecco la nostra forza....
4. E’ purtroppo innegabile che i figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani, nel corso del tempo hanno talvolta mostrato ben scarsa consapevolezza della loro radice comune, giungendo a sviluppare forme di tensione e di conflittualità sfociate in drammatiche conseguenze delle quali come quasi sempre accade, hanno pagato il prezzo i più deboli e indifesi. Non sarebbe tuttavia onesto dimenticare che, proprio in quella tenebrosa pagina della storia, taluni hanno saputo davvero eroicamente rendersi testimoni di valori assoluti, non certo a dispetto ma in forza della propria appartenenza religiosa vissuta senza ambigui particolarismi. Gli stessi discendenti delle vittime della Shoah hanno avvertito l’esigenza di salvare dall’oblio queste storie straordinarie, come dimostrano i nomi dei circa ventiduemila «Giusti tra le nazioni» censiti dallo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, tra i quali figurano anche quelli di settanta musulmani. Essi, in nome della loro fede islamica, si adoperarono per salvare la vita ad alcuni ebrei durante la persecuzione. La frase del Talmud «Chi salva una vita salva il mondo intero», compare infatti anche nel Corano.
(Paolo Branca)
Giovanni 10,1-10
In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
1. Talvolta dubito che sia possibile salvare l’uomo di oggi. Ma è ancora possibile salvare i figli di quest’uomo, nel corpo e nello spirito?
(A. Camus Prometeo all’inferno)
2. Pietro, nel suo discorso, va all’essenziale, al cuore della fede, e lo sintetizza così: “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”. E’ bastato questo per sentirsi trafiggere il cuore. Oggi abbiamo fatto aggiunte, quante ne abbiamo fatte, quanti documenti, e quanti itinerari, e lunghi anche! Anche per il Battesimo. Ma allora bastava il cuore. Pietro aveva fatto un incontro di catechesi, e i presenti si sentirono trafiggere il cuore e ricevettero il Battesimo. P. Camillo De Piaz, nel lontano 1972, diceva: “Spesso ci tormentiamo domandandoci in che cosa consiste propriamente la fede, il vivere nella fede: se nel pensare tutti allo stesso modo, se nel far corpo per contare, per essere potenti, per dominare, se nella totale acquiescenza ai comandi che vengono dall’alto (come se ci trovassimo in certi eserciti e Cristo avesse parlato di sergenti e generali anziché di pastori). Oppure se la fede sta nel credere che tutto si risolve nell’allinearsi passivamente a quello che l’autorità proclama e basta, vedete invece come Pietro, in quel momento decisivo ed esemplare, mette risolutamente in luce, con vera autorità, quello che conta, l’essenza dell’annuncio, il vero impegno: ricercare lo Spirito e testimoniare che in Gesù opera Dio, e qual è il nostro vero, il nostro unico Signore, e quindi la ragione delle nostre libertà di fronte alle signorie di questo mondo”.
Se stiamo al Vangelo di Giovanni, il titolo di pastore non può essere sbrigativamente offerto ad altri pastori. Nel recinto delle pecore altri entrano barando, entrano non per la porta. Dalla porta, la porta dell’autenticità, la porta della sua Pasqua, la porta di chi dà la vita, è entrato Gesù. Il guardiano del recinto, Dio, ha aperto a Gesù la porta delle pecore. L’autenticità di Gesù, del suo essere pastore, sta nelle cicatrici delle sue mani. Entra a porte chiuse e mostra, quale segno di riconoscimento, le trafitture dei chiodi. Se c’è un’immagine che si addice profondamente a Gesù non è tanto quella del sacerdote, l’uomo del culto, ma quella del pastore. Il pastore passa la vita con le pecore, sta con le pecore. E dovrebbe nascere una familiarità tra noi e lui: ne conosci la voce, la distingui da quella degli estranei. Tu sei così abituato alla sua lunghezza d’onda che ti viene normale ravvisare, in ciò che vedi e in ciò che ascolti, vicinanze o distanze dal Vangelo. Questa familiarità è condizione essenziale per non cadere nella menzogna, quando alcuni di noi si danno la qualifica di pastori. Che cosa conosci, che cosa condividi, ti porti addosso l’odore della gente? Un’avventura che non è e non sarà mai di imprigionamento. Il pastore apre il recinto e porta fuori, fuori dall’asfissia dei nostri progetti, lungo la strada della libertà evangelica.
(don Casati)
3. Fu in quel momento di gravissima crisi della nostra parrocchia che Paolo VI e il cardinale Ugo Poletti mi chiamarono: “Pietro, tocca a te”. Non fu un invito, ma un ordine al quale non pensai minimamente di sottrarmi. Era il settembre del 1975. Avevo trentanove anni, ho appena passato i settanta. Da quel giorno la mia vita è cambiata, ha preso la rotta di un destino indicato da lassù. La via per raggiungere la mia attuale felicità è stata aspra, piena di ostacoli e di sfide. Tieni conto che questa parrocchia ha una gestione laica. Dopo la mia nomina si riunirono le comunità di base del quartiere e partecipai a quell’assemblea, seduto tra la gente. La protesta sfociò in una sorta di proclama: “Ce l’abbiamo con il vescovo, perché il parroco dobbiamo nominarlo noi, non lui”. Poi uno disse: “Don Sigurani, parli lei”. Io rimasi seduto sulla mia sedia, impassibile. Secondo invito, tutti stupiti del mio silenzio. Poi finalmente mi alzai e dissi: “Se mi invitate a parlare non come don Sigurani, ma come parroco, sono a vostra disposizione”. Il gelo si sciolse e io dissi che non ero là per inquadrarli con un’azione di ordine pubblico. Chi lo pensa si sbaglia, perché un pastore non cammina mai davanti alle pecore, ma in mezzo a loro o dietro. E sono le pecore a stabilire quando fermarsi per mangiare e bere. E il pastore si adegua. Poi conclusi perentorio: “La prossima assemblea la convoco io, il vostro parroco”. A quei tempi la chiesa era quasi vuota, le azioni di violenza si erano spinte sino a interrompere le messe, c’era aria cattiva in Italia e pessima attorno alla mia parrocchia. Ma la gente è tornata, mi ha dato fiducia, ha accolto il mio programma. E il quartiere di destra, dei benpensanti, è diventato il quartiere della solidarietà senza confini. Oggi assistiamo migliaia di emarginati, difendendo e rispettando la loro dignità. Dissi che non avrei mai accettato una lira dallo Stato o da una qualsiasi istituzione. Saremmo diventati ostaggio della politica. Un solo finanziamento: la carità. Il quartiere ha risposto in pieno: può permetterselo. Abbiamo fatto cose grandi non solo qui, ma anche in una piccola fetta di deserto, in una seconda patria lontana, nel Sud della Tunisia. Ti faccio tre nomi: Douz, Kébili, Nefta. Non ti dicono nulla, ma anche in queste città lunisine ci sono la nostra casa e il nostro cuore. Presidi romani, ma intestati a loro, ai poveri di quella terra. Noi non siamo proprietari di nulla, ecco la nostra forza....
4. E’ purtroppo innegabile che i figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani, nel corso del tempo hanno talvolta mostrato ben scarsa consapevolezza della loro radice comune, giungendo a sviluppare forme di tensione e di conflittualità sfociate in drammatiche conseguenze delle quali come quasi sempre accade, hanno pagato il prezzo i più deboli e indifesi. Non sarebbe tuttavia onesto dimenticare che, proprio in quella tenebrosa pagina della storia, taluni hanno saputo davvero eroicamente rendersi testimoni di valori assoluti, non certo a dispetto ma in forza della propria appartenenza religiosa vissuta senza ambigui particolarismi. Gli stessi discendenti delle vittime della Shoah hanno avvertito l’esigenza di salvare dall’oblio queste storie straordinarie, come dimostrano i nomi dei circa ventiduemila «Giusti tra le nazioni» censiti dallo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme, tra i quali figurano anche quelli di settanta musulmani. Essi, in nome della loro fede islamica, si adoperarono per salvare la vita ad alcuni ebrei durante la persecuzione. La frase del Talmud «Chi salva una vita salva il mondo intero», compare infatti anche nel Corano.
(Paolo Branca)